Enzo Tortora, un uomo perbene 

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Al netto delle strumentalizzazioni cui stiamo assistendo da anni per giustificare provvedimenti che distorcono il concetto stesso di giustizia, è doveroso ricordare Enzo Tortora e l’inizio del suo calvario. Era l’alba del 17 giugno ’83 quando il popolare giornalista e conduttore televisivo venne arrestato con le accuse infamanti di traffico di stupefacenti e associazione a delinquere di stampo camorristico. Due capi d’imputazione gravissimi, cui si giunse grazie alle testimonianze di alcuni pentiti, in una fase storica in cui il pentitismo andava di moda in vari ambiti e aveva anche una sua ragione di esistere, essendo in corso non solo una ferocissima guerra all’interno di alcune organizzazioni criminali ma anche l’ultimo capitolo della stagione brigatista.
Tortora pagò la sua notorietà, la sua discreta ingenuità e l’imperizia di alcuni magistrati, i quali si resero protagonisti non solo di un gravissimo errore giudiziario ma, di fatto, dell’annientamento di un uomo perbene che, al termine di quell’incubo, non sarebbe stato più lo stesso, fino a spegnersi il 18 maggio ’88 a soli cinquantanove anni.
Non entriamo nel merito della vicenda, se non altro per non unirci al coro di chi se ne serve per scopi che a noi non paiono né nobili né rispettosi del dramma di un uomo e della sua famiglia, che ha pagato quanto lui per colpe che non aveva, subendo un discredito per cui non può esserci risarcimento. Preferiamo riflettere, invece, sulla nostra categoria. Furono, infatti, assai pochi i giornalisti che si schierarono pubblicamente al suo fianco, andando in direzione ostinata e contraria rispetto alla foga colpevolista che gli si abbatté contro e che, probabilmente, lo ferì ancora di più della violenza dell’indagine in sé. Ne ricordiamo due per tutti, Enzo Biagi e Piero Angela, che non persero occasione, in pubblico e in privato, per manifestargli stima e affetto, per ribadire la sua innocenza e per contrastare un accanimento che disintegrò una persona di natura mite, resa fragile dai malanni cardiaci e ferita nella sua onorabilità, che ero ciò che, insieme alla famiglia, gli stava più a cuore.
L’inferno di Tortora fu anche quello della moglie Miranda e delle figlie Silvia e Gaia, le quali furono costrette a crescere e diventare adulte anzitempo, vedendo minate le proprie certezze e dovendo combattere con un discredito e una cultura del sospetto che ha reso l’Italia barbara e profondamente ingiusta.
Non apparteniamo, e non apparterremo mai, alla schiera di coloro che chiedono vendetta anziché giustizia e non vogliamo penalizzare tutti i giudici solo perché alcuni non si sono comportati a dovere e altri continuano a sbagliare o, peggio ancora, ad assumere atteggiamenti arroganti e disumani. Per onorare Tortora, ci limitiamo a citare una sua bellissima frase: “Io sono innocente e spero, dal profondo del cuore, che lo siate anche voi”. In quelle poche parole è racchiusa tutta la dolcezza, la sapienza e la gentilezza d’animo del personaggio.
Quando tornò alla conduzione di “Portobello”, il 20 febbraio dell’87, finalmente riconosciuto innocente e vittima di una macchina del fango senza precedenti, pose al pubblico una domanda scanzonata e al tempo stesso straziante: “Dove eravamo rimasti?”. In un incubo senza fine, caro Enzo. Nel gorgo di una violenza complessiva che abbraccia molteplici settori e che ha reso quasi impossibile il confronto civile e democratico nel nostro Paese.

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