La Turchia non è un paese per giornalisti. Lo scrivevo oltre 10 anni fa in un famoso articolo su Micromega quando vidi per la prima volta nella mia vita sfilare un corteo di soli giornalisti nel cuore della parte europea della città d’Istanbul. Un evento inspiegabile che mi spinse prima al reportage e poi alla pubblicazione di un libro, “Sansür”, che ebbe una certa fortuna e aprì gli occhi dei vari colleghi obnubilati che parlavano di Turchia come “modello da seguire per tutto il Medio Oriente”. Oggi, come allora, di fronte all’ennesima vittoria politica di Erdoğan, è necessario accendere nuovamente una luce su questo paese che rischia di diventare ancor di più una prigione a cielo aperto per giornalisti. All’indomani della rielezione del presidente Recep Tayyip Erdoğan per un altro mandato di cinque anni, è lo stesso presidente del Sindacato dei giornalisti della Turchia (TGS), Gökhan Durmuş, a dirsi estremamente preoccupato per il perdurare di politiche e misure oppressive nei confronti dei giornalisti, spiegando che quest’ennesima vittoria dimostra il controllo capillare che Erdoğan ha dei media in Turchia. “Sembra che le politiche oppressive dell’AKP a scapito della libertà di stampa e di espressione e le pratiche di criminalizzazione dei giornalisti, attuate negli ultimi 12 anni, continueranno – ha spiegato Durmuş – le pratiche che tengono la società lontana dalle notizie, che gettano un velo sulla realtà e che identificano i giornalisti come terroristi quando necessario probabilmente continueranno”. Ma la legge della termodinamica per la quale ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria fa sì che sia la stessa Turchia ad avere gli anticorpi giusti. I giornalisti turchi, nonostante i pericoli, i bavagli e le prigioni, sono infatti estremamente coraggiosi. Nonostante una situazione difficile per la stampa indipendente e di opposizione, il presidente del Sindacato dei giornalisti della Turchia ha detto chiaramente che il sindacato non abbasserà la guardia e promette battaglia. “Continueremo a lottare per raccontare alla società la realtà anche di fronte a tutte le misure oppressive. Non permetteremo che il giornalismo venga distrutto in questo Paese. Continueremo a lottare per la libertà di stampa e di espressione e anche per i nostri diritti, partendo da dove eravamo rimasti”.
E intanto da Parigi il segretario generale di Reporter senza frontiere (RSF) Christophe Deloire non usa mezzi termini all’indomani della rielezione del presidente Recep Tayyip Erdoğan per un mandato di cinque anni. In un’intervista a France Info, il segretario della ong basata a Parigi spiega che Erdoğan , da quando è al potere, ha fatto della Turchia “un laboratorio per la repressione della libertà di stampa con vari e svariati mezzi, attraverso l’incarcerazione di massa dei giornalisti”. “Ce ne sono ancora 30 in prigione oggi – spiega Deloire – con procedure giudiziarie arbitrarie che hanno portato alla chiusura dei media dell’opposizione, con l’acquisizione di uno dei maggiori gruppi mediatici privati da parte di un oligarca, un miliardario a cui è molto legato. E mettendo i media pubblici al suo servizio. Su TRT Haber, il principale canale pubblico che trasmette notizie, Erdoğan ha avuto ad aprile un tempo di trasmissione 60 volte superiore a quello del candidato dell’opposizione: 32 ore contro 32 minuti. Ovviamente, tutto questo mina la sincerità delle elezioni”.
Per Deloire tutti i mezzi sono buoni per Erdoğan per reprimere il giornalismo in Turchia. E in più, esporta la sua repressione usando bollini rossi dell’Interpol quando giornalisti dall’estero sui social pubblicano contenuti non graditi alla presidenza. “Esercita anche pressioni diplomatiche sui paesi europei affinché estradino o espellino giornalisti turchi in Turchia ed affinché possano sbatterli in prigione. È tutto un sistema”, chiosa. Dalla Turchia intanto, Erol Önderoğlu, rappresentante di RSF in Turchia, non nasconde la propria preoccupazione per il futuro del giornalismo in Turchia dopo la rielezione di Erdoğan . “Siamo profondamente preoccupati per la libertà dei media e per il futuro di un giornalismo trasparente e imparziale. Sembra che ci aspettino giorni più impegnativi”. Önderoğlu ha invitato il potere politico a non demolire lo status imparziale dei media ed evitare di trasformare la magistratura “in un’arma contro i giornalisti critici”.
Un invito che, visto l’andazzo degli ultimi vent’anni, resterà probabilmente lettera morta. Dal 2014, oltre 200 giornalisti in Turchia sono stati perseguiti per aver insultato il presidente Erdoğan . Se si calcola dall’inizio del primo mandato di Erdoğan migliaia di giornalisti sono passati per le prigioni o hanno subito processi, licenziamenti, soprusi, angherie. Non è un caso che la Turchia sia 165 esima su 180 paesi per il rispetto della libertà di stampa. Un paese in cui fare giornalismo significa la prigione o l’esilio. Negli ultimi mesi, 32 giornalisti curdi accusati di appartenere al PKK, il movimento considerato terroristico da Ankara, sono stati arrestati. Di questi 32, solo sedici sono stati rilasciati. Il Consiglio superiore dell’audiovisivo, RTUK, impone multe astronomiche ai media. L’attuale legislazione antiterrorismo e il codice penale turco permettono facilmente di aggirare la legislazione sulla stampa.
Si prospettano dunque tempi duri per i colleghi di un paese vicino, con l’Unione Europea che finge di guardare altrove. Un paese in cui da oltre vent’anni fare giornalismo è estremamente pericoloso. I giornalisti turchi lottano da oltre un ventennio contro la repressione, i bavagli e le censure. Dieci anni fa pochi parlavano di repressione della stampa in Turchia. Le informazioni erano poche e scarne. Oggi pero’ non si puo’ più dire “io non sapevo”, non ci si puo’ più girare dall’altra parte come allora. Oggi tocca a noi, giornalisti europei ed italiani, vegliare affinché la situazione non precipiti ancora di più. Una “scorta mediatica per la Turchia” è oggi più che mai necessaria per difendere il lavoro dei nostri amici e colleghi minacciati ed imbavagliati dal regime turco.