Non era scontato che in una delle stagioni più tristi della nostra storia recente, mentre è al governo una compagine che non esita a parlare di “sostituzione etnica” e a mettere in discussione i valori cardine del nostro stare insieme, ragazze e ragazzi decidessero di fare la propria parte. Non era scontato che scendessero in piazza contro tutti i fascismi e le forme di razzismo. Non era scontato che si mobilitassero in nome di una preside, la cui unica colpa è stata quella di citare Gramsci e scrivere una lettera rivolta ai suoi studenti in cui sosteneva, a ragione, che il fascismo sia nato innanzitutto a causa dell’indifferenza della moltitudine nei confronti della violenza dilagante ai danni degli oppositori politici. Non era scontato che continuassero a battersi per l’ambiente, il paesaggio e il territorio, contro un modello di sviluppo che costituisce, a sua volta, una forma di fascismo, sia pur di natura economica. E non era scontato che richiamassero Meloni, Bernini e Valditara alle proprie responsabilità, contro ogni ambiguità su un tema cruciale per il nostro vivere civile.
A ottant’anni dalla rivolta del Ghetto di Varsavia, mentre Mattarella è in visita in Polonia per ribadire l’impegno dell’Italia contro ogni forma di tirannia e di oppressione, ci accingiamo a celebrare la festa della Liberazione, un appuntamento che quest’anno assume un significato particolare. È indispensabile prendercene cura e fare la nostra parte, proprio perché oggi la Costituzione è sotto attacco e i fondamenti della democrazia sono messi pesantemente in discussione. È imprescindibile scendere in piazza, manifestare e, più che mai, dire la nostra su giornali e siti, sui blog, sui social e ovunque sia ancora possibile. È doveroso sfilare in corteo il prossimo 25 aprile, ricordando alle forze politiche che non sappiamo che farcene di un antifascismo celebrativo e strumentale: ne occorre uno vero, concreto, che tenga presente il contesto in cui stiamo vivendo e non scenda a patti con coloro che, ad esempio, hanno votato nel segreto dell’urna un Presidente del Senato che offende la memoria di via Rasella.
Spiace dirlo, ma se siamo ridotti così è anche, se non soprattutto, per colpa dei tanti, troppi che nell’ultimo trentennio non hanno fatto altro che porre sullo stesso piano partigiani e repubblichini di Salò, sdoganando una retorica revisionista che ci ha condotto nel baratro in cui siamo sprofondati. Aggiungo: le larghe intese con soggetti che non hanno mai davvero rinnegato la propria matrice sono state la cifra dell’ultimo decennio, con la conseguenza di una progressiva sparizione della sinistra e di un ancor più grave sgretolamento della sua dignità. A ciò aggiungiamo una crisi dei partiti senza precedenti, che si è attorcigliata su se stessa fino al punto di rendere quasi impossibile ogni forma di rappresentanza democratica, fra parlamentari nominati e coalizioni di governo che nessun elettore, né dall’una né dall’altra parte, avrebbe mai avallato. Una democrazia senza popolo, in cui il Parlamento svolge una funzione sostanzialmente consultiva, con il governo che fa le leggi e la Consulta che ci garantisce qualche diritto, sopperendo all’arretratezza della politica, non è una vera democrazia. E non accettiamo neanche lezioni dai costituzionalisti della domenica che alzano il sopracciglio ogni volta che ricordiamo loro che “la sovranità appartiene al popolo”: è vero che esistono dei vincoli, anche stringenti se vogliamo, ma è altrettanto vero che rispettare la volontà delle persone non è populismo ma, per l’appunto, amore per la comunità e rispetto per la gente che si reca alle urne. E ancora: una democrazia nella quale non vota più quasi nessuno, fra elezioni locali che si svolgono in un clima di stanchezza e disinteresse collettivo e un dibattito nazionale pressoché assente, è una democrazia destinata a scomparire. Non a caso, le pulsioni autonomiste e presidenzialiste oggi la fanno da padrone. Del resto, se umilii costantemente la cittadinanza, se ne calpesti i diritti, se non ne rispetti in alcun modo la volontà, se offendi la dignità dei più deboli, se metti in discussione e infine abolisci ogni misura volta a preservare gli ultimi dalla crisi economica che affligge l’intera Europa, se smantelli qualsivoglia forma di tutela e protezione sociale, insomma se getti benzina sul fuoco del malcontento, il risultato non può che essere l’azzeramento della partecipazione popolare alla cosa pubblica. Anche per questo sentiamo di dover abbracciare e dire grazie a questi giovani che, nonostante tutto, ancora ci credono e si battono anche per noi, passati evidentemente attraverso troppe disillusioni, con troppe rughe a solcarci l’anima, troppo disincanto, troppo distacco e troppa paura di avvicinarci nuovamente a un ambiente che tante delusioni e sofferenze ci ha arrecato.
Siamo grati alle ragazze e ai ragazzi che gridano il proprio malessere nelle scuole e nelle università, denunciando l’atmosfera infernale che si è venuta a creare intorno a loro e chiedendo non di studiare meno ma di studiare meglio, in un ambiente più stimolante, con meno cattiveria, meno competizione sfrenata, meno incitamenti a calpestare il prossimo e più cooperazione. Con l’ingenuità dei loro vent’anni chiedono, né più e né meno, di smantellare un modello di crescita che ci ha portato al disastro e di abbracciare un metodo inclusivo in cui nessuno sia lasciato indietro. Mi sia consentito, a tal riguardo, un appunto di carattere personale. In politica, ho conosciuto tanti soggetti, uomini e donne, con i quali non prenderei più nemmeno un caffè. Tuttavia, ho incontrato anche persone meravigliose, alcune delle quali sinceramente convinte dell’importanza del merito, inteso come ascensore sociale e possibilità da offrire a chi è nato, per dirla con Ramazzotti, “ai bordi di periferia”. Ebbene, se c’è un concetto che nell’ultimo ventennio ha assunto un’accezione totalmente negativa, questo è il concetto di merito. Merito è diventato, infatti, sinonimo di esclusione, di darwinismo sociale, di selezione della specie, di test d’ingresso per mettere alla porta i più fragili, di insulsi quiz a crocette volti non ad accertare le competenze e il livello di conoscenza di studenti e studentesse ma ad offendere nel profondo chi è rimasto indietro, fino a indurlo ad abbandonare la scuola.
Merito è ormai una parola manomessa, distorta, violentata, privata del suo significato originario, quello della Costituzione, e trascinata nel gorgo del liberismo selvaggio. E come merito, anche valutazione è una parola che si è trasformata dell’opposto di ciò che dovrebbe essere. E allora non voglio dire che non si debbano più utilizzare in assoluto questi termini ma che per farlo bisogna prima disarmare chi li usa come una clava contro gli ultimi della fila. Bisogna ripulire il linguaggio, mondarlo dalla ferocia di cui attualmente è intriso, renderlo nuovamente uno strumento di crescita democratica collettiva e accantonare momentaneamente una terminologia che non ci possiamo permettere, almeno fino a quando saremo governati da personaggi che irridono persino la fragilità di chi non arriva a fine mese. Dobbiamo avere il coraggio di guardare negli occhi il nuovo fascismo, che non somministra l’olio di ricino agli oppositori, non marcia su Roma e non mette fuori legge i pochi avversari che gli sono rimasti. Non lo fa perché sono cambiati i tempi ma, soprattutto, perché è trasversale e radicato pressoché ovunque, essendo dilagata una cultura dell’odio che non prevede alcun rispetto per l’altro e per le sue idee.
E dobbiamo ricordarci di un insegnamento che Enzo Biagi scrisse sul primo numero di “Patrioti”, la rivista della brigata Giustizia e Libertà, divisione Bologna, che aveva fondato nel ’44. Citando Giosuè Borsi, sosteneva che il programma politico della Resistenza fosse costruire “un’Italia più giusta e più buona”. Ecco, dev’essere anche il nostro. Ce lo stanno insegnando questi partigiani del Terzo Millennio che sognando, sperando, commettendo qualche errore e talvolta persino esagerando, ci stanno ricordando il senso di questo 25 aprile in tempo di guerra e devastazione delle poche certezze che davamo ormai per acquisite. Ci torna in mente, allora, un aneddoto che ha raccontato una volta Pierluigi Bersani: “Un mese prima del 25 aprile del ’45 sette partigiani, quasi tutti sui vent’anni, vengono portati dal carcere di Monza a Pessano per essere fucilati. Il cappellano di Monza, che li confortò, ci ha lasciato un ricordo. Avviandosi al patibolo, uno di quei giovani è preso da una disperata crisi di pianto. Il suo compagno, altrettanto giovane, gli dice “Ma che cosa piangi? Non moriamo mica per niente, moriamo per qualcosa”. Decidere se quel giovane sia morto per niente o per qualcosa tocca anche a noi. Il senso del 25 aprile è tutto qui”. Sta a noi farne tesoro, seguendo il loro esempio.
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