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L’arresto di Rachid Ghannouchi indica il fallimento del dialogo nel Nord Africa

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Quando l’uomo forte di Tunisi, Kais Saied, ha ordinato l’arresto di Rachid Ghannouchi, ottuagenario leader degli islamisti moderati di Ennahda, non solo la Tunisia, ma tutto il Nord Africa hanno imboccato la pericolosissima strada che potrebbe portare alla guerra civile per Tunisi e allo scontro frontale nella regione intera. Dunque per prima cosa dobbiamo capire chi siano i protagonisti di questo scontro. Kais Saied, il “laico” che ha disciolto le istituzioni democraticamente elette del suo Paese sovrano, e Rachid Ghannouchi, il “religioso” che ha guidato l’islam politico prima dal lungo esilio impostogli dal sistema autocratico fino alla primavera del 2011 e poi a varare la Costituzione tunisina insieme alle forze progressiste negli anni successivi. Diverse volte ospite qui a Roma della Comunità di Sant’Egidio, Ghannouchi ha conosciuto l’Europa negli anni del suo esilio, in gran arte londinese, e questo gli ha dato probabilmente la capacità di dare all’islam politico una visione compatibile con la democrazia, quella che ha ispirato la carta costituzionale che ha varato con le forze moderate, laiche e di sinistra. Vedremo tra poco perché il suo arresto suona drammatico.
Di Kais Saied uno dei migliori ritratti lo ha scritto in questi giorni padre Giovanni Sale su La Civiltà Cattolica, partendo di qui: “Kaïs Saïed, eletto presidente della Tunisia nel 2019 con un alto numero di voti, aveva affermato che avrebbe riformato lo Stato, senza però instaurare un governo autoritario. In realtà, il 25 luglio del 2021 ha destituito il primo ministro, Hichem Mechichi, e ha sospeso la Costituzione, che era stata promulgata nel 2014, ‘e inviato i carri armati a sbarrare le porte del Parlamento’ annunciando che, per il momento, avrebbe governato per decreto. Una nuova Carta Costituzionale, approvata il 26 luglio del 2022 con un referendum popolare, ha aumentato i suoi poteri, instaurando una Repubblica presidenziale al posto di quella parlamentare: ciò gli ha permesso di governare il Paese con durezza e determinazione”. Per il padre gesuita la speranza riposta in Saied era soprattutto quella di migliorare la condizione economica. Ma l’esito è stato questo: “Nelle ultime elezioni politiche del 17 dicembre 2022, i tunisini hanno di fatto disertato le urne: ha votato solo l’8% degli aventi diritto, un cittadino su 10, mentre i partiti di opposizione e le organizzazioni invitavano gli elettori a boicottare il voto definivano tale suffragio una ‘farsa’ e quindi illegittimo sul piano del diritto. Secondo i partiti dell’opposizione, Saïed, dopo anni di governo, aveva fatto troppo poco per risolvere la crisi economica, che rischiava di far affondare il Paese. L’inflazione annuale ha superato il 10% nel gennaio 2023; la disoccupazione è del 15%. Un terzo dei laureati non trova lavoro e desidera emigrare in Europa. Da alcuni mesi, come effetto della guerra in Ucraina, molti prodotti alimentari di base hanno iniziato a scarseggiare: nei supermercati spesso gli scaffali sono vuoti. Il rialzo dei prezzi globali delle materie prime ha aumentato i costi di produzione e di distribuzione e, quindi, quello al consumatore, aggravando ulteriormente la crisi alimentare”.
Quella di Saied emerge come una laicità “autocratica”, con un’aggravante ulteriore. La scelta del cavallo di battaglia identitario, quello che spesso si rimprovera agli islamisti. Questa scelta si chiama “sostituzione etnica”, proprio quella di cui si parla in queste ore con un certo imbarazzo in Italia. Saied infatti, come rivela padre Sale, non ha esitato a evocare proprio la sostituzione etnica come obiettivo del flusso migratorio dall’Africa nera, che intenderebbe togliere alla Tunisia il suo carattere arabo e islamico, un complotto ordito ovviamente dai famosi poteri forti: “Tale posizione ricorda da vicino la teoria della cosiddetta ‘sostituzione etnica’, formulata per la prima volta dallo scrittore Renaud Camus e oggi fatta propria dall’estrema destra francese (in particolare da Éric Zemmour), e poi divulgata in diversi Paesi di cultura francofona, come appunto la Tunisia”. Per la Tunisia si è dimostrato un boomerang, avendo irritato così il Fondo Monetario e la Banca Mondiale, alle quali proprio Saied aveva chiesto un prestito per salvare il Paese. L’esito? Lo descrive benissimo ancora padre Sale: “Come conseguenza sono aumentati gli episodi di intolleranza e di violenza nei confronti degli immigrati neri, tanto che questi, per diversi giorni, hanno evitato di farsi vedere in giro o di frequentare luoghi pubblici. Da Tunisi, la città delle primavere arabe, si è avviata una ‘fuga di immigrati’ come non era mai accaduto prima: le ambasciate della Costa d’Avorio e della Guinea hanno in fretta e furia organizzato dei voli di rimpatrio dei propri concittadini, non più graditi. Kaïs Saïed inoltre, riprendendo alcune tesi dei movimenti di destra, ha denunciato l’aumento del numero di chiese cristiane in Tunisia gestite da africani: cosa che intaccherebbe, a suo dire, il carattere islamico dello Stato. Ma il fatto che immigrati cristiani aprano dei luoghi di culto nel Paese dei gelsomini è perfettamente legale: la libertà di culto è prevista e garantita anche dalla nuova Costituzione, voluta dal Presidente”. Verrebbe da chiedersi chi sia il leader “islamista” in Tunisia, se Saied o Ghannouchi.
Qui emerge infatti il tratto riformatore, inclusivo, che ha perseguito anche in questi ultimi mesi il rivale di Saied, l’arrestato islamista Ghannouchi. Come ha sottolineato per il Carnegie Institute l’autorevole Hamza Meddeb, Ghannouchi, insieme al Tunisian General Labor Union (UGTT), aveva elaborato una piattaforma per l’Iniziativa Nazionale di Dialogo che aveva trovato addirittura il sostegno del più stretto alleato di Saied, il presidente algerino  Abdelmajid Tebboun. Ma Saied ha respinto il dialogo e quindi la stessa sponsorizzazione da parte dell’alleato algerino (un regime non certo incline all’islam politico come la storia ha dimostrato sanguinosamente).
L’arresto di Ghannouchi purtroppo sembra dire all’islam politico che il dialogo, i tentativi di integrarsi in un sistema politico plurale, sono destinati a fallire, con tutto ciò che ne consegue. Non solo in Tunisia.
(Nella foto, tratta da una intervista televisiva, Rachid Ghannouchi)


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