Non arrivano buone notizie, dal mondo arabo. Anzi, ne arrivano decisamente di cattive. In Arabia Saudita, per esempio, è in corso una reazione feroce e senza precedenti contro i “liberali” e in generale contro la libertà di espressione. Una “stretta” che ha già colpito il blogger dissidente Raif Badawi (nella foto) e qualche giorno fa anche lo scrittore Turki al-Hamad, “colpevoli” di aver aperto un blog e aver inviato alcuni tweets ritenuti blasfemi. Nel confinante Kuwait un tribunale ha condannato a due anni di carcere un giovane attivista, Ayyad al Harbi, che su twitter aveva criticato l’emiro Sabah Al Ahmad Al Sabah. Stessa pena era toccata a Rashid Saleh al Anzi per aver “attaccato i diritti e i poteri dell’emiro”, che governa il Paese dal 2006. Avvenimenti che si inserirebbero in un contesto di crescente repressione nei confronti dei dissidenti, che criticano il governo e la famiglia reale. Più in generale, più d’uno rimprovera quello che giudica un eccesso di ottimismo di fronte alle primavere arabe; e sostiene che ora ci si trova piuttosto dinanzi a un melanconico autunno prossimo a un tetro inverno. Attenzione: ci viene detto: gli integralisti guadagnano posizioni, guardate cosa avviene in Egitto, in Tunisia, in Libia… Attenzione, a non coltivare illusioni… si tratta di messe in guardia che hanno il sapore del “si stava meglio quando si stava peggio”. In Irak si stava meglio quando c’era Saddam; in Tunisia si stava meglio quando c’era Ben Alì; in Libia si stava meglio quando c’era Gheddafi; in Egitto si stava meglio quando c’era Mubarak; forse qualcuno si prepara a dirci che in Siria si stava meglio quando c’era Assad jr…
Si può al contrario, all’alba del 2013, coltivare un cauto e vigile ottimismo? Si può osservare che noi, i “civili” e “rispettosi”, abbiamo conquistato questi valori dopo qualche centinaio d’anni, e abbiamo pagato e fatto pagare prezzi niente affatto irrisori? Anche noi abbiamo arrostito esseri umani in nome di un’opinione, di un dogma…
Cauto e vigile ottimismo perché, per esempio capita di vedere un film come “La bicicletta verde”. Ottimismo per un film? Sì. Come ci rende ottimisti la cinematografia statunitense, che oltre a orribili sequel commerciali è anche capace di fare film che flagellano impietosi la società americana, come sapeva fare negli anni ’50-’70 la cinematografia italiana, che oggi invece per lo più percorre altre strade con eccezioni, beninteso, ma rare; e non sempre riuscite).
“La bicicletta verde” è un film di speranza. Pensate: è il primo film diretto da una regista donna dell’Arabia Saudita, Haifaa al Mansour, e già questo è importante. Haifaa è certamente una privilegiata: in Arabia Saudita le proiezioni cinematografiche sono vietate. Se si vuole vedere un film, bisogna far ricorso a proiezioni private, “casalinghe” grazie a videoregistratori e lettori DVD. Haifaa ha avuto un padre appassionato di film e “liberale”; le ha consentito alla figlia di andarsi a laureare in letteratura all’università americana del Cairo e di conseguire successivamente un master in cinematografia a Sydney. Ah! Dunque, magari minoritari, esistono anche uomini non completamente ottenebrati… Padri, insomma, e non padroni. Da questo retroterra nasce “La bicicletta verde”: primo lungometraggio completamente girato in Arabia Saudita, a Riyadh; il primo diretto da una donna. Piccola cosa? Ma certo, non è la rivoluzione, ma qualcosa pure significa…
Le protagoniste sono due donne: una star televisiva araba, Reem Abdullah, nel ruolo della madre, vessata, colpita nei suoi sentimenti più profondi e intimi; e capace di trovare in sé le risorse per l’atto di ribellione finale, determinante: quando abbraccia la figlioletta e le sussurra che a lei dovrà essere risparmiato il suo destino; è un urlo di liberazione commovente e rincuorante. L’altra protagonista, nel ruolo della figlia Wadjda è la bravissima esordiente Waad Mohammed. La scena in cui, dopo aver vinto il concorso e il denaro in palio, Wadjda rivela cosa ne vuole fare (l’acquisto dell’agognata bicicletta), richiama – arbitraria suggestione? – all’“Attimo fuggente” di Peter Weir: quando il professor John Keating viene alla fine cacciato dall’istituto, ma ha la soddisfazione di vedere prima lo studente Todd Anderson, poi via via tutti gli altri, balzare sui banchi al grido di “O Captain! My Captain!”. Ma “Wadjda non si limita a “urlare” e rivendicare la sua libertà di bicicletta. Si concede anche una perfida, sacrosanta vendetta: e pubblicamente rinfaccia alla inflessibile, tetragona preside della scuola, le clandestine del «bel ladro notturno»…
Non sembri arbitrario accostare una “bicicletta verde” all’insegnamento “altro” dei poemi di Walt Whitman, Ralph W.Emerson o Henry D. Thoreau. In ballo c’è una sfida, una corsa della ragazzina e il suo compagno: che si guardano negli occhi e nessuno dei due si sogna di considerare diverso o inferiore l’altro. Anzi, quando finalmente Wadjda inforca la bicicletta, il ragazzino non ci pensa un attimo a piantare in asso gli amici con cui gioca a pallone, e rincorrerla…
Come “Una separazione” di Asghar Farhadi racconta l’oppressivo e cupo mondo iraniano senza toni da crociata, ma “semplicemente” facendo uso della tecnica narrativa “descrivendo scene di quotidiana follia di burocratico fanatismo statal-religioso, così “La bicicletta verde” mostra cos’è la vita quotidiana in un paese dove le donne non possono guidare, e dove per avere un figlio maschio l’uomo è legittimato a sposarsi più volte, e dove la bicicletta è interdetta alle donne, in quanto strumento di perdizione: potrebbe causare la perdita della verginità. Punito dipingersi le unghie, evitare contatti in pubblico, anche solo occhiate; camminare per strada intabarrate da burqa…
Dite che è poco per giustificare quel cauto e vigile ottimismo di cui si è parlato prima? Vogliamo credere che voi pessimisti-realisti sarete smentiti e che noi cautamente ottimisti si sia nel giusto. Un film come questo è motivo di conforto. Ci dice che il mondo sarà salvato dalle donne, e per rubare un titolo di Elsa Morante, dai ragazzini…Ci dice che il percorso sarà lungo, accidentato, pieno di contraddizioni, faticoso. Ma ci dice anche che indietro non si torna. Anche in quel mondo che appare chiuso come in una monade, c’è chi ha assaporato il sapore del frutto della libertà, del poter essere come si vuole, di poter dire e pensare quello che si crede…Un frutto che una volta gustato, non si dimentica, è un sapore che resta, indelebile. E nulla più è come prima…