Il reato di tortura non si tocca

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Il reato di tortura, in Italia, non se lo può intestare alcuna forza politica. Venne introdotto sotto il governo Gentiloni, nel 2017, ma non è merito della maggioranza o del presidente del Consiglio dell’epoca. Se c’è un merito, e c’è, è infatti interamente di un anziano militante comunista, Arnaldo Cestaro, massacrato alla Diaz nonostante, nell’estate del 2001, avesse già compiuto sessantadue anni, degli avvocati e delle avvocatesse che si sono battuti durante i processi G8 e di quella parte della magistratura che non ha mai chinato la testa né piegato la schiena, pur avendo subito pressioni indicibili e ben sapendo quanto fosse alto il prezzo da pagare per quell’atto di coraggio e di giustizia. Ecco, la giustizia, intesa nel suo senso più puro, più nobile e più elevato. La giustizia: quel valore che distingue una democrazia liberale da uno Stato autoritario, quel principio sacro e inviolabile per cui non si può mai mancare di rispetto alla persona e che ha come primo obiettivo la salvaguardia della sua dignità, qualunque sia la sua condizione o il reato commesso. La giustizia: quella che è mancata a Genova nei giorni di via Tolemaide, di piazza Alimonda, di Forte San Giuliano, della Diaz e di Bolzaneto, quando, di fatto, venne istituita una zona franca senza Stato né legge che, purtroppo, ha fatto scuola nei vent’anni successivi. La giustizia: quella bussola morale che va di pari passo con l’umanità e che, purtroppo, da allora, nonostante i processi e l’impegno di altri avvocati e magistrati meritevoli di ogni stima, non si è pienamente affermata nelle vicende tragiche di Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Aldo Bianzino e, meno che mai, nell’inferno del penitenziario di Santa Maria Capua Vetere.
Del resto, lo abbiamo sempre detto e scritto: ci portiamo Genova addosso come una ruga dell’anima, come un solco che ci ha scavato dentro, come una ferita insanabile, anche perché oscurata, nascosta, consegnata all’oblio da una politica che ha pensato di lavarsi la coscienza con la dimenticanza, perdendo di vista la lezione di Primo Levi sulle conseguenze cui si va incontro quando si perde di vista la storia.
Se oggi abbiamo al governo un partito, Fratelli d’Italia, i cui esponenti sono tetragoni nel voler abolire la blandissima legge che regola il reato di tortura, pertanto, è perché abbiamo commesso soprattutto un errore interpretativo. Pur utilizzare un’espressione a loro cara, non ne abbiamo compreso la “matrice”. Genova, nella storia d’Italia, e non solo, costituisce una cesura storica, un punto di non ritorno, una frattura sociale, civile e politica senza precedenti e di cui non si parla mai perché non si vuole che le persone abbiano piena consapevolezza di ciò che è stato per evitare di ripeterlo. Se in questo Paese abbiamo assistito alla vergogna di una ministra cui una serie di “Napalm 51” ha scritto sui social, con reiterata violenza, di andare a fare “pompini” è perché, in quel maledetto luglio di ventidue anni fa, a tante ragazze inermi e disperate è stato rivolto il medesimo invito e nessuno ne ha chiesto davvero conto ai responsabili. Ebbene, volendo scomodare Pasolini, “io so”. So perché me ne sono occupato, so perché ho ascoltato dalla viva voce dei protagonisti cosa sia stata la Diaz e, più che mai, la caserma di Bolzaneto e so che la violenza fisica della Diaz, per quanto atroce, è stata inferiore rispetto alla violenza psicologica disumana di un luogo di lavoro trasformato in lager. In quella caserma ci siamo giocati l’Italia, almeno per come la conoscevamo. Difatti, nel momento in cui una ragazza viene costretta a girare nuda sotto gli sguardi compiaciuti dei suoi aguzzini, un uomo subisce la frattura di una mano ad opera di un agente, un’altra ragazza viene costretta a urinarsi addosso, a chiunque vengono inflitte sofferenze indicibili e la politica si volta complessivamente dall’altra parte, mi spiace dirlo, ma non bastano i processi a fare giustizia. Io so quanto impegno abbiano profuso quei magistrati e quelle magistrate per richiamare il legislatore ai suoi doveri, per far comprendere all’opinione pubblica il vuoto normativo presente nel nostro ordinamento e per restituire un minimo di fiducia nello Stato alle vittime di quella barbarie. So che non potevano fare di più e mi porterò dietro per sempre la loro voce rotta dall’emozione mentre testimoniavano ciò che avevano visto e sentito, arrivando a preoccuparsi non solo del presente di quelle ragazze e di quei ragazzi ma, soprattutto, del loro futuro. Conosco anche Ilaria Cucchi. L’ho incontrata la prima volta all’inizio del suo percorso processuale. Ho visto da vicino la dignità con cui si è battuta per suo fratello e la passione con cui continua a battersi oggi che è diventata senatrice. So di cosa parlo e so anche il perché questa destra voglia cancellare una legge di civiltà che, invece, andrebbe rafforzata nell’interesse non solo della collettività ma, più che mai, dei tanti agenti perbene, la stragrande maggioranza, che sono i primi a chiedere che sia rispettata la propria onorabilità, allontanando coloro che hanno disonorato la divisa che indossano con comportamenti indecenti.
Se giunti fino a questo punto non ho utilizzato i termini sanzionare e punire, ve ne sarete accorti, ebbene non è un caso. Non li ho utilizzati perché penso che la violenza nasca innanzitutto dal linguaggio, e io con il linguaggio furioso di questa destra non voglio avere nulla a che spartire. Ho deciso di espungere dal mio vocabolario ogni termine che possa confondersi con le parole d’ordine dell’attuale maggioranza, proprio perché voglio essere diverso e migliore. E penso altresì che questo dibattito vada di pari passo con un’altra questione dirimente, ossia la piaga delle carceri e, in particolare, delle madri detenute. Io so, grazie alla testimonianza straziante contenuta nel libro di Enrica Bartesaghi (“Genova: il posto sbagliato”), quanto fu importante il comportamento umano, ad esempio, del direttore del carcere di Vercelli, il quale, avendo capito com’erano andate realmente le cose, si prese cura delle ragazze umiliate e devastate nel girone dantesco della Diaz e di Bolzaneto, aiutandole in ogni modo e facendole stare al nido, con i sette nani sulle pareti. Per questo, dopo il mio viaggio nell’abisso di Genova, ritengo che il carcere, tranne rarissime eccezioni, serva a poco o a nulla, che quasi sempre si debba ricorrere a pene alternative e che per le detenute madri occorrano delle case-famiglia, perché chiunque può e dev’essere recuperato ma, soprattutto, perché nessuna bambina e nessun bambino deve crescere dietro le sbarre.
Tutti i regimi totalitari sono nati, innanzitutto, dal linguaggio. Quando le parole d’odio hanno preso il sopravvento, eravamo già fascisti, assai prima della Marcia su Roma.
Io li ho osservati con attenzione gli occhi delle vittime dell’orrore che ho raccontato, compresi, ribadisco, quelli di quei PM che hanno tenuto in piedi la nostra democrazia quando sarebbe potuta sprofondare e della GIP che durante gli interrogatori per convalidare o meno i fermi, arrivò a porre in dubbio la sua fiducia nello Stato, sconvolta dai racconti che stava ascoltando. E ascoltando a mia volta quelle storie ho capito come eravamo e cosa siamo diventati. Per questo, penso che non abbia alcun senso che la scuola si batta meritoriamente contro ogni forma di bullismo e di cyberbullismo se poi, nelle istituzioni, qualcuno propone non di tutelare gli agenti di Polizia o i Carabinieri ma di legittimare il bullismo di Stato di coloro che mai dovrebbero arrivare a indossare una divisa. Mi torna sempre in mente la PM che mi chiede di parlare di Genova nelle scuole perché non vuole più occuparsene in un’aula di tribunale. Mi tornano in mente gli atti processuali che redassero. Mi tornano in mente i sacrifici, talvolta anche fisici, credetemi, che dovettero compiere per scrivere quelle sentenze. E mi torna in mente il senso di ingiustizia che avvertono pensando, con estremo dolore, di non aver potuto fare di più per tutelare non solo le vittime di quella tragedia ma i diritti di tutte e tutte noi. Se oggi abbiamo questo straccio di legge a tutela dei più deboli, come detto, lo dobbiamo a loro. E lo dobbiamo anche alla coscienza civica di agenti straordinari come l’amico che mi disse: “I codici identificativi sui caschi e la targa commemorativa davanti alla caserma di Bolzaneto dovremmo chiederli proprio noi, perché non siamo carnefici e dobbiamo prendere le distanze prima di tutto da chi infanga il nostro lavoro e la nostra rispettabilità”. Mi rendo conto che metterla in questi termini è dura, specie in una società intrisa di odio e di ferocia, che da Portella della Ginestra in poi non ha mai saputo fare i conti con i propri lati oscuri, ma lo dobbiamo a tutte le persone che abbiamo citato finora, nessuna esclusa. E per dirla ancora con Primo Levi, ricordiamoci sempre che “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre”.

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