Scheletri nell’armadio. Come in tutte le famiglie borghesi dei drammi di Ibsen, ne abbondano anche nella famiglia Alving, il cui capofamiglia ormai deceduto fu ciambellano nella piccola comunità norvegese in cui siamo proiettati e di cui percepiamo la prevalenza di buio e di tempo per lo più brumoso, visto che le nuvole arrivano anche sul palcoscenico, spoglio e inquietante, con quel grandissimo specchio sul fondale.
Scopriremo che Osvald, il figlio del ciambellano, cresciuto nel mito del padre, ne ha ricordi confusi ma incrollabilmente legati a un’immagine positiva che sua madre Helene ha costruito negli anni per lui, pur allontanandolo appena possibile dall’alveo familiare con la scusa di mandarlo a studiare a Parigi. La stessa Helene, che ha presto conosciuto la dissolutezza del marito, voleva fuggire da quella casa, soprattutto dopo aver scoperto la relazione del ciambellano con la loro cameriera, da cui nascerà una figlia illegittima, la bella Regine. Ma il pastore Manders, dogmatico custode delle convenzioni sociali e della morale religiosa, aveva dissuaso Helene dal lasciare il marito, salvo poi scoprire di avere difeso un depravato. Regine invece, alla cacciata della madre da casa Alving, sarà allevata da un padre non suo, un ubriacone attirato soprattutto dalla generosa dote lasciata dal ciambellano all’amante per dileguarsi e tacere. Regine è colei che apre la scena, dentro casa Alving, dove è stata richiamata per fare la cameriera: la vediamo sorridente e intenta a ricomporre un vaso in frantumi. Osvald, appena rientrato da Parigi, è innamorato di Regine, senza che nessuno dei due sappia che hanno lo stesso padre. E’ il personaggio femminile di Helene, magistralmente interpretato da Andreas Jonasson, abilissima a passare dalla tenerezza materna alla disperazione di donna tradita e infelice, a dover mettere in chiaro le cose, distruggendo senza tante cerimonie il castello di carte che per anni aveva costruito. Ed è proprio a lei che Ibsen affida il disvelamento, anche del senso dell’opera: mentre parla con il pastore Manders, Helene dice che tutti siamo spettri, che non si tratta solo di ombre di antenati bensì di antiche convinzioni sbagliate e morte che continuano a muoversi dentro di noi.
Osvald non sta bene, ha un malessere che appare molto contemporaneo e che il medico a Parigi ha definito incurabile, una sorta di tara ereditaria, che l’attore Gianluca Merolli traduce soprattutto in fissità dello sguardo: sembra un vero spiritato, oltre che dipendente, dall’alcol, dalle sigarette, forse anche da sospetti e pensieri incomprensibili che lo assediano. Sono pezzi della mente che sfuggono al suo controllo. “Mamma tu non mi puoi aiutare”, le spiega mentre confessa di essere attratto dalla spensieratezza solare di Regine. Eppure la madre deve dirgli la verità per salvarlo dall’incesto; forse si rende improvvisamente conto che averlo tenuto all’oscuro della terribile realtà lo ha solo danneggiato, ha fermato il tempo e la possibilità di andare oltre. Il registro usato dalla Jonasson va dalla leggerezza di risate complici alla dolcezza di voler consigliare al figlio di non farsi del male, passando per i momenti di fermezza rispetto alla propria opinione sul marito o di disperazione per il suo autoisolamento in quella casa, in quella attesa che tutto venga svelato e risolto, nella speranza che gli spettri tacciano una volta per tutte. “Non riuscii a bastargli – ricorda Helene parlando del legame con il ciambellano – ma non si può chiedere a una sola persona di essere tutto il mondo”. Quando Regine e Osvald ballano davanti allo specchio enorme sul fondale, che comincia a oscillare velocemente a destra e sinistra, senza restituire di loro un’immagine precisa ma piuttosto una vorticosa fuga dall’identità, lo spettatore viene assalito dal dubbio di avere anch’egli molti spettri in cui riflettersi, senza mai riconoscersi totalmente, senza poterli davvero affrontare. E siamo tutti investiti dalle parole del pastore che arrivano a condannare chi pretende con arroganza un diritto alla felicità, a discapito delle responsabilità anche nei confronti della società e della felicità altrui.
Helene, che vorrebbe in tutti i modi aiutare il figlio, alla fine, dopo che ogni cosa è stata svelata, non sa cosa rispondere quando egli, distrutto, le chiede il sole. Il sole. In quell’angolo di fiordo chiuso e isolato. Ibsen scrisse “Spettri” nel 1881, durante un soggiorno a Roma e Sorrento dove avrà fatto scorta di luce. La richiesta di sole, che chiude la pièce e che ognuno può leggere come crede, sembra però un po’ limitata da quella finale musica liturgica che scende sul palcoscenico mentre Helene volge in alto lo sguardo, perché inevitabilmente richiama una sacralità dalla forte connotazione confessionale che stride con il resto dell’opera, così radicata nell’imperfezione della condizione umana e terrena, cui tutti gli interpreti contribuiscono a donare calore e credibilità.
Spettri
di Henrik Ibsen, versione italiana e adattamento Fausto Paravidino
regia Rimas Tuminas
con Andrea Jonasson, Gianluca Merolli, Fabio Sartor, Giancarlo Previati, Eleonora Panizzo
scene e costumi Adomas Jacovskis
disegno luci Fiammetta Baldiserri riprese da Oscar Frosio
musica Faustas Latènas, Giedrius Puskunigis, Jean Sibelius, Georges Bizet
assistente alla regia Gabriele Tuminaite
assistente e interprete del team creativo Alina Frolenko
produzione TSV – Teatro Stabile del Veneto