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Come si cambia il Pd. La neo-segretaria ha strappato il sipario

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Il netto successo alle primarie del partito democratico di Elly Schlein non deve stupire. È vero che i più avevano scommesso su di un’agevole vittoria del competitore Stefano Bonaccini, ma a leggere un po’ in profondità sintomi e tracce che si muovevano sotto la superficie dei segni qualcosa si capiva.

Pochi giorni prima, ad esempio, si era consumata una delle peggiori pagine della storia politica degli ultimi anni: le elezioni regionali, in particolare la scadenza laziale, hanno segnalato che la crisi della politica è diventata una deriva. L’astensionismo, perso per strada il suo tratto vagamente eversivo, ha assunto le sembianze della normalità.

Si è consumata, dunque, una separazione esplicita ed esibita tra i mondi reali e la loro (presunta) rappresentanza.

Quale migliore occasione, quindi, dell’appuntamento della consultazione aperta per scegliere il/la segretario/a del partito nato a freddo nel 2007 con la fusione tra i Democratici di sinistra e la Margherita per dare due ceffoni alle vecchie liturgie? Per una piccola rivolta? Del resto, con una certa improntitudine la commissione che scrisse lo statuto della nuova formazione si immaginò due circuiti decisionali: l’uno interno, l’altro pubblico. Fu una mediazione non felice tra l’anima partitista e quella della leggerezza organizzativa. All’epoca fu un compromesso, ora è un dato di altra natura.

La partecipazione significativa (ancorché minore rispetto alle precedenti occasioni) al voto ha travolto la quantità davvero esigua della prima puntata, a dimostrazione che vi è un popolo di elettrici ed elettori dello stesso Pd che richiede di riappropriarsi di un corpo moribondo per ridargli soprattutto un’anima.

Elly Schlein, una donna talentuosa e impegnata nei variegati tornanti di Occupy Pd (dopo lo scandalo dei 101 che impallinarono Romano Prodi nel 2013), del parlamento europeo e della regione Emilia-Romagna, è sembrata la figura salvifica: l’ultimo treno prima della notte. Sarà vera gloria? Vedremo.

È utile partire da simili constatazioni per evitare di applicare alla neo-segretaria gli schemi interpretativi di sempre, ingialliti insieme a qualche pigro commento. La questione non è di capire quale sarà la gradazione di centrismo o di gauche della miscela che si appaleserà. Il tema è quale messaggio dà alle vecchie sinistre tale inaspettato successo. Ecco la questione.

Senza prefigurare disegni organici o indulgere a repentine illusioni (la traversata sarà lunga), indubbiamente la Schlein ci indica un nuovo ciclo.

Se vittoria non effimera e non rapidamente sussunta dai capi corrente gattopardeschi sarà, nulla potrà e dovrà rimanere fermo ed immobile.

Un dialogo né opportunista né subalterno con 5Stelle sarà all’ordine del giorno. Da lì passa la ricostruzione di una decente opposizione oggi, per un’alternativa domani. Così, ciò che rimane a sinistra del Pd (al di là del rientrato Articolo1) ha bisogno di fare un bel tagliando. Ne ha già accennato Nicola Fratoianni ed è augurabile che se ne possa parlare, mettendo a fuoco la ricostruzione di culture adeguate ai conflitti dell’era digitale. Giustamente, la Schlein sottolinea con nettezza le contraddizioni dell’ambiente e del lavoro (precario e schiavistico), ma qui urge una significativa ripresa della critica dell’economia politica. Marx non è morto. Se mai sono defunte certe caricature dell’analisi sociale.

Per federare soggettività diverse serve uno scarto creativo nelle e delle forme della politica: una ricetta utile per rispettare le differenza senza cedere al narcisismo delle scissioni. Lo scenario desolante che ereditiamo ha devastato le coscienze e ha lasciato soli i movimenti o l’associazionismo, pure ricchissimi e diffusi.

Nell’audizione tenutasi ieri alla camera dei deputati con il ministro degli interni dopo l’orribile tragedia di Crotone, la Schlein ha chiesto le dimissioni di Piantedosi, su cui le critiche non trovano neppure le parole.

Speriamo che sia l’avvio di una lotta forte e senza tentennamenti contro la destra al governo. Infatti, Giorgia Meloni ha cominciato a capire, per usare il suo linguaggio, che la pacchia è finita.

La presidente del consiglio si fa scudo con l’atlantismo bellicista e ne usa la forza come assicurazione sulla durata dell’esecutivo.

Un’opposizione vera ha bisogno di rovesciare l’ordine degli addendi, costruendo sulla voglia di pace una strategia: etica prima ancora che politica.

Una sinistra credibile ha bisogno di rifondarsi moralmente, innanzitutto. E la guerra è l’esatto contrario.

Nell’editoriale de il manifesto dello scorso martedì 28 febbraio, Norma Rangeri concludeva che non basta una donna sola al comando. Giusto. Ma gli uomini hanno (miseramente) fallito.

 


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