A Curzio Maltese mi legano molteplici ricordi. Tanti come lettore, anche le volte che non ero d’accordo con lui, e uno, struggente, come collega. Era il gennaio dell’anno scorso, stavo completando l’inchiesta sui fatti avvenuti a Genova durante il G8 e mi sembrava doveroso raccogliere la sua testimonianza, essendo stato lui uno dei cronisti che con maggior vigore, lucidità e onestà intellettuale avevano seguito quei giorni. Curzio stava già male, anche se mi disse di sentirsi meglio, e con grande garbo declinò l’invito. È un tassello che manca e oggi il dolore è ancora più forte, acuito dal senso di ingiustizia per una vita straordinaria che si è conclusa troppo presto. Aveva appena sessantatre anni, era un galantuomo d’altri tempi, un giornalista con la schiena dritta e un militante appassionato della sinistra. Non a caso, nel 2014 accettò di candidarsi con la Lista Tsipras alle Europee, nel tentativo di restituire dignità al popolo greco, all’epoca martoriato dalla Troika, e di riportare in auge almeno una parvenza di progressismo nel nostro Paese, mentre il PD viveva il culmine della stagione renziana, con tutto ciò che essa ha comportato.
Curzio Maltese era un sognatore, un idealista, un interlocutore attento dei movimenti, un grande studioso dei fenomeni sociali ma, soprattutto, aveva una penna in grado di sferzare chiunque, dal Vaticano alle istituzioni, denunciando ogni stortura da par suo, senza però mai scadere nel qualunquismo.
Di Curzio, come detto, voglio ricordare in particolare le rare volte che mi sono trovato in disaccordo, perché anche di fronte a quegli articoli non potevo non riconoscere la lealtà della persona, la buona fede dei suoi ragionamenti e la convinzione con cui esprimeva le sue idee, argomentandole con brillantezza e senza mai risparmiarsi. Mi piace ricordarne lo stile, la dolcezza, la bontà d’animo e il coraggio, in un ambiente in cui tutti questi valori sono ormai venuti meno e non è rimasto, nella maggior parte dei casi, altro che la furia di tanti egoismi e personalismi, dannosi sia per chi scrive che per i lettori.
Curzio non scindeva mai la professionalità dalla sua visione del mondo, ritenendo il giornalismo una forma di battaglia politica, un’avventura intellettuale e una passione dalla quale non ci si può dimettere.
Infine, ed è l’aspetto che più lo rendeva unico, odiava gli indifferenti, animato da uno spirito partigiano che gli impediva di non dire la sua, di non schierarsi, di non prendere sempre e comunque parte.
Voglio citare, in conclusione, due passaggi di uno dei suoi articoli più belli, intitolato “Se la sinistra è solo ‘local'”. Si apriva così: “Li si nota di più se vengono o non vengono a Genova? Se sfilano a braccetto con Manu Chao, come forse farà Fassino, oppure se si limitano a inviare una lettera d’adesione, come ha fatto D’Alema? O è meglio ancora venire a Genova ma senza sfilare, come Cofferati, anche se si è d’accordo su quasi tutto? Oppure è più serio Violante che inorridisce al solo pensiero, ma non spiega perché non è d’accordo? Insomma, eccola la sinistra italiana alle prese con l’eterno “che dirà la gente?”. Che dirà se quelli che hanno voluto il G8, perse le elezioni, manifesteranno contro? Ah, l’immagine. Berlusconi gli ha insegnato che è tanto, soprattutto in Italia. Ma forse non tutto”. E ne aveva anche per il mondo sindacale: “Il ritardo e la “sorpresa” della sinistra italiana davanti alla globalizzazione si riflette anche sul sindacato. Alla riunione dei sindacati mondiali di Genova, l’altro giorno, gli interventi più attesi erano quelli di John Sweeny, capo dell’AflCio, potente e conservatore sindacato americano, e naturalmente quello di Sergio Cofferati, segretario della CGIL. Ebbene, il “conservatore” Sweeny ha strappato gli applausi della sala rivendicando l’appoggio deciso ai popoli di Seattle, mentre il post comunista Cofferati ha sollevato mugugni con i suoi moderati distinguo. Un rovesciamento di parti e ruoli tanto più sorprendente se si considera che la marea globale del turbo capitalismo minaccia di abbattere per prima cosa, con il potere degli stati, la grande costruzione del riformismo sindacale europeo, il welfare”.
Era il 20 luglio 2001 ma sembra scritto oggi, il che spiega meglio di ogni altra analisi le ragioni delle nostre sconfitte.
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