Dal 25 al 29 gennaio scorso, una delegazione, composta da oltre 30 persone, proveniente da 7 Paesi diversi, composta da esponenti di associazioni come l’ANPI, i Giuristi Democratici, il Cred, avvocati e dirigenti politici della sinistra, hanno compiuto un articolato viaggio in Turchia. Scopo della missione era quello di informarsi di quale siano le condizioni dei prigionieri politici tenuti in isolamento, in particolare di Abdullah Ocalan, verificare le condizioni e lo stato della democrazia in Turchia, incontrare esponenti delle forze politiche laiche e di sinistra, associazioni che si occupano a diverso titolo del rispetto dei diritti umani, rappresentanti della stampa, legali, e familiari delle vittime di anni di repressione. Una repressione, che colpisce non solo la popolazione curda nel paese ma ogni forma di dissenso e ogni altra minoranza non prona al regime. Il 2 febbraio, in una sala messa a disposizione dall’Fnsi, che – come è stato ricordato – ha sempre prestato particolare attenzione per quanto avviene in tale Paese, si è tenuta una conferenza stampa di resoconto parziale del viaggio. Un report completo sarà infatti reso disponibile per la fine di febbraio. La delegazione, giunta ad Istanbul, si è divisa in vari tronconi a seconda degli incontri da effettuare per poi ritrovarsi alla fine in una giornata di forum che ha permesso ai partecipanti di mettere a confronto le esperienze e le testimonianze raccolte. La mission partiva da un presupposto semplice che via via si è ampliato nel corso del viaggio. Secondo gli standard internazionali imposti dal CPT (Comitato per la Prevenzione della Tortura), si possono tenere in isolamento i detenuti garantendo almeno 2 ore d’aria e per un periodo non superiore ai 15 giorni, anche qualora questo trattamento fosse stato dovuto a misure punitive. Paradossalmente questo è stato stabilito dai “protocolli di Istanbul” del 2008 e dalle cosiddette “regole Mandela”, si tratta di norme che anche lo stato turco si è impegnato a rispettare. Le normative stabiliscono anche che l’isolamento va applicato in proporzione ai reati per cui si è condannati, va rendicontato in registri, non può essere basato su discriminazioni. Questo sembra non valere per il carcere dell’isola di Imrali dove Abdullah Ocalan è detenuto dal febbraio 1999, in totale isolamento. Tutti i criteri della Corte Europea per i Diritti Umani sono stati stracciati: ad Ocalan non è garantita la possibilità di comunicare col personale carcerario, con i legali, con i parenti. Solo negli ultimi 7 mesi, è stato raccontato nella conferenza, sono state presentate 96 richieste di incontro con i legali, di queste per 68 non è giunta alcuna risposta e per 28 la risposta è stata negativa. Di fatto non si hanno notizie sul suo stato di salute dalla fine del 2019, non è possibile neanche sapere se è vivo.
Il CPT, che è un organismo giurisdizionale ma di prevenzione, quindi politico, ha fra le sue facoltà quello di effettuare ispezioni concordate o a sorpresa nei Paesi che, come la Turchia, fanno parte del Consiglio d’Europa. Nel settembre scorso una ispezione a sorpresa è stata effettuata ad Imrali, il resoconto è stato consegnato nelle mani delle autorità turche che si rifiutano di renderlo pubblico. Questa modalità del CPT si usa per tentare di trovare soluzioni diplomatiche, ma il veto posto da Erdogan fa sì che solo gli esponenti del Comitato che si sono recati nell’isola, conoscano la situazione dei prigionieri. Parliamo al plurale perché dopo numerose proteste rispetto al regime di isolamento del carcere, il regime turco aveva disposto il trasferimento a Imrali di un’altra ventina di detenuti. Oggi, insieme ad Ocalan, ci sono nell’intero complesso altre tre persone di cui non si hanno notizie ormai da tre anni. Su questo tema hanno molto insistito nella conferenza, due avvocati: Francesca Trasatti, presente in quanto componente dell’Esecutivo nazionale di Potere al Popolo e Michela Arricale del Cred. Quest’ultima ha ricordato come, non solo ad Ocalan è impedito di incontrare i propri legali ma che i 5 avvocati che si sono succeduti nella sua difesa sono stati a loro volta accusati e in alcuni casi condannati per terrorismo. Chi lo difende oggi rischia fino a 25 anni di carcere. La richiesta fatta da Trasatti e Arricale è quella di non considerare questa situazione come “normale” e il CPT deve dimostrare la volontà politica di non accettare i veti di Erdogan e rendere pubblici i risultati della propria ispezione. Fabrizio de Sanctis, dirigente dell’Anpi ha fatto parte della componente della delegazione che si è recata ad Amed (per i turchi Dyarbakir) la più importante città curda in Turchia. Ha potuto incontrare i parenti di Ocalan e degli altri detenuti, i loro legali, le rappresentanti dell’associazione Madri per la Pace, le famiglie dei guerriglieri caduti, le associazioni femministe, i partiti.
Due le richieste prioritarie poste in ogni incontro: porre fine all’isolamento di Ocalan in quanto parte integrante dell’isolamento dell’intero popolo curdo e denunciare l’uso di armi chimiche da parte dell’esercito turco nelle azioni di repressione militare. Su questo punto la domanda specifica che si rivolge all’Europa è quella della creazione di una Commissione di inchiesta indipendente che accerti tale utilizzo di armi contrarie alle convenzioni internazionali. De Sanctis, rendendo omaggio alla sede che ospitava la conferenza, ha fornito i dati in merito alla repressione sui giornalisti: 50 di loro, kurdi, sono stati uccisi negli anni, molte sedi dei giornali sono state bombardate e altri giornalisti sono spariti nelle carceri. Soltanto negli ultimi 7 mesi ne sono stati arrestati 25, alcuni di loro hanno subito torture, soprattutto quelli che hanno osato parlare delle armi chimiche. Dal 2016 sono stati chiusi 300 giornali e attualmente risultano in prigione 88 giornalisti. Simile situazione per gli avvocati, 42 risultano “violati fisicamente”, 103 arrestati e 25 cancellati dall’ordine. Alcuni sono incriminati perché hanno difeso gratis le persone arrestate per terrorismo, altri sono stati picchiati nei commissariati e poi arrestati con l’accusa di aver picchiato gli agenti di polizia. Il Presidente dell’Ordine, intervenuto in udienza per difendere un giornalista picchiato ha visto l’assistito picchiato ancora, il Presidente del consiglio dell’Ordine di Amed, durante una conferenza stampa contro l’utilizzo delle accuse di terrorismo è stato ucciso e il suo quartiere raso al suolo. Ora è stato ricostruito ripopolandolo con profughi provenienti da altri Paesi, soprattutto dalla Siria. Particolarmente toccante la testimonianza dell’avvocato dell’Associazione Progetto Diritti, Cosimo Alvaro. Ha parlato delle donne, spesso madri o mogli, che si battono per riottenere il corpo dei propri cari caduti per mano turca.
Nei racconti raccapriccianti di queste “Madri per la Pace”, che indossano un velo bianco, la tortura psicologica loro inflitta. Chi uccide i loro cari non si accontenta. Fa a pezzi i corpi dei caduti per negare un funerale secondo la tradizione islamica, a volte le donne ricevono, dalle autorità, pacchi contenenti i resti dei familiari. Crudele il racconto di una donna che, dopo aver trascorso sei anni in carcere, perché si ostinava a chiedere notizie del figlio, si è vista portare le sue ceneri durante l’udienza in tribunale. Nel breve periodo di tregua che c’è stato col PKK, era stata permessa la realizzazione di cimiteri per i caduti, quando sono ripresi gli attacchi ai kurdi, questi cimiteri sono stati bombardati. Cesare Antetomaso, dei Giuristi Democratici, non ha fatto parte della delegazione ma la sua associazione è sempre stata in prima fila in questa lotta per il diritto tant’è cha la sua co presidente, Barbara Spinelli, ha un bando a tempo indeterminato ad entrare in Turchia. Antetomaso ha raccontato di processi farsa in cui i testimoni dell’accusa appaiono coperti in videoconferenza e non è possibile rivolgere loro domande e in ragione di questa situazione ha chiesto un intervento urgente del Consiglio d’Europa. Numerose associazioni hanno sottoscritto un appello in cui si chiede alla Turchia trasparenza legale di non accettare il diritto di veto imposto da Erdogan sul rapporto CPT. Ultimo ad intervenire nella Conferenza è stato Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea, che ormai da anni si reca in questa terra di repressione. Ha parlato con indignazione della sistematica violazione dei diritti umani che si realizza in un Paese “nostro” alleato nella Nato, il cui governo è finanziato dall’UE per tenere lontani i profughi dovuti a conflitti spesso da noi stessi provocati. Ha ricordato come l’Italia in particolare, ha un debito con Abdullah Ocalan che venne da noi per chiedere un asilo che gli fu concesso solo dopo che, con la complicità del governo di allora e subendo le pressioni internazionali, era già stato riconsegnato in mano turca. Ha ragione nel dire che se fosse potuto restare in Italia ne avrebbero guadagnato pace e democrazia in tutta l’area. Su alcune questioni Acerbo ha voluto poi calcare la mano: a Istanbul c’è una sede Rai che informa puntualmente su tutto quanto accade in Medio Oriente e nei Paesi del Golfo ma che non ritiene importante far sapere ai nostri concittadini che, nella stessa Istanbul, una dottoressa è stata arrestata per aver provato l’uso di armi chimiche contro i kurdi. Un’informazione distratta e notizie mai raccontate. Dalla nostra sede Rai non trapela che per il Presidente dell’ordine degli avvocati e della Commissione per i diritti umani non c’è stato di diritto in Turchia in quanto il potere giudiziario è dipendente dall’esecutivo, Basti pensare che dei 15 giudici della Corte costituzionale 10 sono nominati da Erdogan.
Non ci racconta della crescita esponenziale del numero dei detenuti (55 mila nel 2005, 348 mila al 31 dicembre 2022). Ed ha fatto anche poco scalpore il fatto che, mentre la delegazione era in Turchia la Corte costituzionale abbia respinto il ricorso, avverso il provvedimento governativo che ne chiede lo scioglimento, presentato dal terzo partito alle precedenti elezioni, l’HDP (Partito per la Democrazia dei Popoli) i cui principali esponenti sono già in carcere accusati di terrorismo e che, dopo le elezioni amministrative, ha visto oltre 40 sindaci, eletti nelle proprie liste, essere rimossi dal governo di Ankara. C’è il timore fondato che per le elezioni previste a maggio, l’HDP sia già considerato fuorilegge ma i suoi attivisti si sono già organizzati per presentarsi in altra forma come già numerose volte è accaduto in passato. L’accusa è sempre quella di terrorismo. Nella black list Usa il PKK e Ocalan sono considerati terroristi, come un tempo lo era Mandela e come lo erano fino a poco tempo fa le organizzazioni di opposizione in Iran. Essere in queste liste significa che pubblicare su un social il nome o il volto del leader kurdo espone a restrizioni nell’utilizzo nei social fino alla chiusura della pagina o del profilo. In Turchia, ha concluso il segretario di Rifondazione, si sta sviluppando un nazionalismo fondamentalista estremamente pericoloso, la popolazione si identifica con lo Stato e contro il nemico rappresentato dai kurdi, dalle altre minoranze, dall’idea stessa di secolarizzazione della società. Per questo la lotta da portare avanti è per una democratizzazione della società turca.
L’11 febbraio, nell’anniversario dell’operazione che portò alla cattura di Abdullah Ocalan si terrà a Roma una manifestazione nazionale a partire da Piazza Esquilino alle ore 14.30. Un appuntamento importante in cui chiedere la fine dell’isolamento e la liberazione del leader, un’inchiesta internazionale sull’utilizzo delle armi chimiche e l’avvio di un processo di pace. Una strada che pare irrealizzabile ma che, come hanno convenuto tutte e tutti gli esponenti della delegazione, non è solo questione di solidarietà internazionalista ma riguarda la nostra agenda politica e la nostra idea di democrazia da difendere.