Ogni tanto succede ed è terribile. Può accadere a metà dell’incontro, mentre stai spiegando al tuo interlocutore il contenuto nefasto delle carte che stringe tra le mani, quando provi a fargli capire, a tradurre in parole comprensibili, qualcosa che tu stesso reputi insensato: il perverso meccanismo burocratico nel quale la sua istanza per ottenere il riconoscimento di diritti che dovrebbero essere sacri o almeno inviolabili, si è rovinosamente inceppata. Può essere in quell’istante, quando la banalità del male viene disvelata in tutta la sua indifferente crudeltà e il tuo assistito scopre che il suo diritto a soggiornare è stato negato, il tempo di restare è scaduto, perché qualche autorità ha stabilito che deve tornare indietro, alla casella precedente del suo personale ed infernale giro dell’oca (che sia un centro di trattenimento, un decreto di espulsione o un trasferimento, poco importa) può essere lì, in quel momento, in quel bagliore di panico, che si compie questo gesto insopportabile. Oppure, più facilmente succede alla fine dell’incontro, prima dei saluti, quando si è già in piedi, i corpi non più separati dalla scrivania, nessuna barriera neppure tra gli sguardi, non più distratti dalle carte né dalle firme. Altre volte, assai più rare e fortunate, non è la disperazione a piegare le ginocchia, ma una confusa gratitudine indirizzata più agli Dei che agli uomini (o le donne) meri spettatori del suo compiersi.
Ma in ogni caso assistervi mi provoca imbarazzato dolore e quasi insofferenza.
Tendo allora subito la mano, faccio come per raccogliere da terra il mio genuflesso interlocutore, perché torni eretto, fiero, integro nella sua dignità già tante volte messa alla prova e calpestata.
Non è solo vergogna, ci ho pensato bene, è avvilimento e irritazione. Mi mortifica assistere alla sua umiliazione e pensare che l’abbia ritenuta necessaria anche con me. E mi sconforta immaginare quante altre volte avrà dovuto inginocchiarsi, supplicare con parole e sguardi, come fa ora con me, i suoi aguzzini, invocando una qualche latitante pietà.
Questa volta mi inginocchio d’istinto anch’io, per ripristinare una parità di sguardi e di altezze e provare a tirarlo su in piedi, quasi a forza.
Gli dico, a voce un po’ troppo alta perché sembri un semplice consiglio, che non deve inginocchiarsi di fronte a me. Provo a ripetere, per rassicurare più me stessa di lui, che lo aiuterò comunque al meglio delle mie possibilità, perché è un mio dovere e pure un narcisistico piacere tentare di rimediare ai torti e ripristinare diritti.
Non serve e non aiuta implorarmi. E soprattutto l’età e l’erosione dei miei legamenti non mi permettono di stare ancora rannicchiata sul pavimento a parlargli.
Alla fine, rialzatami con un imbarazzante cigolio di giunture, lo stringo in un mezzo abbraccio, impacciato da pandemia e differenze di genere e lo accompagno alla porta prima che possa tentare qualche altro ulteriore moto di preghiera. Mi resta un dolore amaro dentro, un contagio di umiliazione . E provo vergogna sopra ogni cosa, di appartenere ad una specie di bipedi capace di costringere o indurre i suoi simili a inginocchiarsi per avere riconosciuti i propri diritti.
Pubblicato su Repubblica Genova