Chi non può dirsi entusiasta dell’arresto di colui che negli ultimi vent’anni è stato raccontato come “il capo dei capi”, l’uomo dai mille volti e dai mille segreti che avrebbe tenuto in scacco (forse sotto ricatto?) generazioni di inquirenti, dettando legge in Sicilia, e non solo!
Certo, si potrebbe dire un arresto a orologeria. Giusto una settimana il capo del Viminale Piantedosi si augurava di essere il ministro dell’arresto di Messina Denaro. Ma quale ministro di qualsiasi colore non se l’è augurato? E in piena discussione sulla possibile revisione dell’ergastolo ostativo, mentre da pochi giorni è in vigore la riforma della giustizia che ha pesantemente ridotto la procedibilità d’ufficio persino per reati contigui alle attività tipiche delle mafie. E pochi mesi dopo le ennesime dichiarazioni di Salvatore Baiardo, considerato il prestanome dei fratelli Graviano e voce più che attendibile per chi cerca di cogliere i messaggi nascosti tra le righe che arrivano dai boss dentro e fuori il carcere: Matteo potrebbe arrivare ad arrendersi in cambio di una revisione dell’ergastolo ostativo, per godersi “in pace” gli ultimi anni accanto alla sua famiglia. In quella pace che non riescono a vivere i familiari delle tante vittime della strategia stragista che non sarebbe frutto di sola mafia.
E non parliamo solo degli anni ’92-’93. Come da anni sta ricostruendo Paolo Mondani per Report, e anche altre e altri cronisti ostinati, il filo nero riporta molto indietro, potrebbe arrivare ai primi anni Settanta. Forse anche molto prima. O meglio avrebbe potuto arrivare, se alcuni, pochi, uomini dello stato integerrimi e appassionati della verità, non fossero stati fermati, vituperati come visionari, silenziati, sepolti da migliaia di pagine di fascicoli e ricostruzioni che sembra facciano acqua da tutte le parti, o lasciati “suicidare”. E se i testimoni fossero stati ascoltati, in tempo. Ad esempio, per fare un nome, sul’assassinio dell’allora presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella: la moglie, unica ad aver guardato quegli “occhi di ghiaccio” del killer, inutilmente ha chiesto ripetutamente di essere convocata, per tentare un riconoscimento che avrebbe potuto portare molto lontano dalla Sicilia.
Ora siamo a un punto di svolta.
Qualcuno ha detto: “se Messina Denaro parlasse, rivoluzionerebbe la storia di questo paese”. Aggiungiamo che, ad esempio, potrebbe raccontare cosa c’era nell’archivio di Riina, scomparso dal covo non perquisito all’epoca dell’arresto.
Per rivoluzionare la storia, e ancor più per rivoluzionare la realtà anche odierna dell’Italia frutto degli ultimi quarant’anni di trame, omissioni e complicità, sarebbe bastato che le indagini fossero state svolte sempre nel migliore dei modi e liberi da iniezioni di veleno nei corridoi dei palazzi di giustizia; che il lavoro di quei pochi inquirenti con la schiena dritta fosse stato preso sul serio, che deposizioni, informative, documenti fossero esaminati e i testimoni fossero stati ascoltati, tutte e tutti e seriamente, che non sparissero interi pc e hard disk, quantità di faldoni dagli archivi “superprotetti” delle istituzioni preposte. E oggi sarebbe necessario che i tentativi di depistaggio, da qualunque fonte provengano, anche giudiziaria, non vengano rilanciati acriticamente persino dall’informazione più autorevole.
Sarebbe infine necessario che gli inquirenti incaricati di proseguire, ancora dopo trent’anni, le indagini sulla lunghissima stagione delle stragi, non perdessero tempo a pedinare, intercettare, perquisire e intralciare i pochi giornalisti d’inchiesta che ancora hanno le possibilità, oltre alla voglia e alla caparbietà, di ricostruire quelle indagini ripescando materiali e voci affidate all’oblio.
Forse semplicemente sarebbe necessario che si lavorasse seriamente e compiutamente su quei 32 punti non chiariti che la Gip di Caltanissetta, Graziella Luparello, ha messo nero su bianco nel respingere la richiesta di archiviazione dell’inchiesta sulla strage di via d’Amelio, avanzata dalla procura nissena. Speriamo che l’arresto del capo dei capi non metta una pietra tombale su tutti questi filoni d’indagine. E sulla memoria condivisa, molto labile, di questo Paese.
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