“Non è il critico che conta: non colui che fa notare come l’uomo forte inciampa o dove chi fa avrebbe potuto fare meglio. Il merito appartiene all’uomo che è realmente nell’arena…, che conosce i grandi entusiasmi,. le grandi devozioni, che si spende per una giusta causa, che, al meglio, sa alla fine il trionfo delle prestazioni di alta qualità, e che, nel peggiore dei casi, se fallisce, almeno ha osato molto, in modo che il suo posto non sarà mai con quelle anime fredde e timide che non hanno conosciuto né la vittoria né la sconfitta “.
Theodore Roosevelt, presidente USA. Citato da Naftali Bennett nella prefazione al suo libro, Exit.
Sono due politici israeliani di circa 40. Non due “anime disperse ed esitanti”, come dice il proverbio ebreo, ma politici ambiziosi e con una visione globale precisa del modo in cui dovrebbe essere il paese. Appartengono alla stessa generazione, lui è nato nel ’72, lei nel ’73.
Lui è nato ad Haifa, lei a Yafa/Yafo/Jaffa. I genitori di lui sono americani; il padre di lei era di Umm al-Fahm e la famiglia della madre ha vissuto a Jaffa per generazioni. Il padre di lei era un muratore diventato imprenditore edile. Il padre di lui un agente immobiliare. Sono entrambi belli, ognuno alla sua maniera. Lui è rasato quasi completamente, ma con un aspetto dolce; una bella chioma nera circonda il forte viso di lei.
Lui è diventato ebreo rinato e si è trasfigurato in bambino religioso in una secolare dimora verde di Haifa. Lei è andata all’Islam tra le erbacce del quartiere povero di Ajami. La loro adolescenza ha coinciso con la prima Intifada in un paese sempre in guerra. Lui ha trovato rifugio in un ebraismo più ortodosso di quello in cui è cresciuto. Lei ha adottato l’abbigliamento islamico e indossato l’hijab negli anni di punta degli ormoni giovanili. Suo padre, un imprenditore laico musulmano incline a fare domande, le diceva: “Figlia mia, non andare alla religione”. Ma lei si è tuffata nel Corano, la sola risposta che è riuscita a trovare ad Ajami. E tuttavia, nello stesso tempo, in una sorta di contraddizione, ha deciso di studiare filosofia all’Università di Tel Aviv.
Quando suo padre è morto di cancro, lei è rimasta da sola ad affrontare la mentalità della sua famiglia che con forza cercava di impedirle di partire per il campus. Alla fine lei c’è andata comunque. Era il frutto della ribellione. Quando lui è partito per l’esercito, lei è partita per la facoltà di Lettere e Filosofia. Lui ha servito nelle forze speciali del Sayeret Maglan, portava armi e kippah, imparando a risolvere i problemi con l’astuzia e la forza. Nello stesso periodo, lei portava l’hijab, studiava letteratura araba e filosofia, e scopriva il dubbio. Quando lui scriveva da ufficiale il suo inno all’unità: “…Maglan divorerà la sua preda con il fuoco…perchè è il pugno di ferro di Isarele”, lei scriveva il suo primo jingle politico.
Lui ha pubblicato un libro di consigli di exit strategies businnes, lei composto poemi d’amore e sognato di scrivere un romanzo.
Lui ha lasciato l’esercito con la qualifica di ufficiale, mantenuto la kippah, fondato una società di hi-tech. Le domande di lei non hanno avuto risposte dalla religione, se poi ha deciso di togliersi l’hijab. L’attivista Michal Schwartz le ha insegnato i principi del socialismo in arabo e i suoi occhi si sono aperti al razzismo, all’occupazione, e alla povertà: “L’unico posto in cui non ci sono discriminazioni tra ebrei e arabi.”. Quando lui ha fatto il suo quinto milione di euro, lei ha scoperto l’ampiezza dell’ingiustizia, ma ha imparato che non c’era nulla di cui avere paura.
Lui si è sposato ed ha avuto quattro figli a Ra’anana, lei era single, sposata alla causa dei lavoratori. Lui è entrato nel Likud, come i suoi genitori prima di lui, ed è stato capo di gabinetto di Netaniahu nei giorni di questo ultimo deserto politico, per poi diventare leader dei coloni nei Territori occupati. Lei è diventata membro di un piccolo partito dei lavoratori chiamato Daam, che in arabo significa “supporto”, ha viaggiato da un posto all’altro, fondato un comitato di camionisti e preso parte alle proteste per la giustizia sociale del 2011. Lui ha sostenuto la protesta, a modo suo, con qualificazioni.
Lei crede in una terza via, non quella americana o iraniana, ma l’unità degli oppressi e le Primavere del Medio Oriente: l’unificazione di tutti i movimenti di protesta, tra cui quello israeliano, contro i governi corrotti.
E’ stata a Cairo durante la recrudescenza dell’estate 2011 ed ha trovato alleati anche lì, gli egiziani che si sentono vicini alle tende accampate nella Rothschild Boulevard e all’autoimmolazione di Moshe Silman. Spera di vedere la caduta di Assad e di Mamohud Abbas. Ha scritto : “In nessun modo, o forma, io nego il mio essere in arabo, respiro questa lingua e la sua musica, e sogno che un giorno ci scriverò un romanzo, ma rifiuto di rinchiudermi nel… ghetto del nazionalismo arabo e quindi considerare tutti coloro che sono aldilà di questo confine nazionale come nemici o avversari o semplicemente « l’altro ». Mi rifiuto di funzionare come « vittima » perchè lo stato di « altro » è vittimismo. Il vittimismo aumenta l’oppressione delle vittime. ».
Lui propone l’annessione di una parte della Cisgiordania, unilateralmente, di applicare lì la sovranità e di concedere la cittadinanza ad una piccola percentuale di popolazione. Come corollario, vuole rispondere in maniera più dura e decisa a qualsiasi infrazione del cessate-il fuoco. Spezzare ogni resistenza. Ha un programma per calmare i Territori con la creazione di una riserva palestinese, controllata dall’esercito israeliano e dallo Shin Bet. “Autonomia completa senza blocco del traffico di autoveicoli nei Territori controllati dall’Autorità palestinese:.. un Arabo sarà in grado si spostarsi da un punto all’altro della Giudea e della Samaria (Cisgiordania) ad un altro punto senza incontrare posti di blocco e soldati. Proprio come a noi non piace stare nel traffico a lungo, non piace neanche agli Arabi. Un unico investimento di centinaia di milioni di dollari ci avrebbe permesso di realizzarlo… per migliorare la vita degli arabi, e sbarazzarci di una ingiustificata pressione internazionale ed umanitaria.”
Bibi 5
Lui è Naftali Bennett, imprenditore milionario di exit strategies busines, con quattro bambini che vivono a Ra’anana, appena eletto alle primarie canidato del partito chiamato ha-Bayit ha Yehudi, “The Jewish Home”, la Casa Ebraica.
Lei è Asma Agbarieh-Zahalka, sposata piuttosto tardi con Musa Zahalka, una femminista, un attore imprenditore della ristrutturazione edile. Hanno un figlio. E’ stata scelta dal comitato Daam come capolista del partito per entrare alla 19.esima Knesset. Viaggia in autobus.
Sarebbe difficile immaginare due visioni politiche più distanti e contrapposte: la casa ebraica è predicata esclusivamente per gli ebrei, mentre l’essenza di Daam è un’alleanza arabo- ebraica. Lui è nel conflitto eterno e lei nella visione dell’alleanza. Lei si è chiarita il modo con cui uscire dalla dura terra e aspira alla pace, lui è cresciuto su un letto di erba soffice ma il suo cammino è di guerra.
Possiamo paragonare Bennett ad una nuova versione di Bib (Netaniahu, ndt)i, un Bibi 5, come un telefono Apple appena lanciato nei negozi. C’è una lunga coda di gente in cerca del nuovo prodotto, che sembra a metà americano, semi-divino. Il blogger Ilani ha scritto che Bennet “eccita anche i gay della comunità”. E’ un buon segno dato che si dice che sono in grado di scegliere la prossima tendenza.
Bibi e Sarah Netaniahu possono fiutare il vento. Bennett sarà presto trattato con i metodi della corte malata di Bibi, dove ha servito una volta, sono metodi che conosce bene.
Per Bennett, Netaniahu è un rivale e un modello, una figura paterna da eliminare per ereditare il regno. Nel suo libro “Exit” descrive qualche lezione fondamentale copiata da lui; “non ho mai visto un uomo tanto ostinato e perseverante”. Così riassume l’ostacolo che si trova sul suo cammino verso il trono di primo ministro. Non cita Lieberman.
Ps. Personalmente, alla vigilia di queste elezioni 2013, la donna atea araba di Ajami, con le sue idee di alleanza tra i due popoli, esprime le inclinazioni del mio cuore e le mie speranze molto più del religioso Ashkenazi, l’uomo “exit” di Ra’anana, con i suoi programmi in stile enclave coloniale 19.esimo secolo, per un eterno conflitto senza ingorghi di traffico.
Text from Igal Sarena’s blog
Yedioth Aharonot, Weekend supplement, december 2012