Era il 16 novembre 2001 quando L’Espresso, nei giorni ruggenti della guerra in Afghanistan, pardon della “missione di pace”, dava la sveglia alla sinistra con un titolo gridato in prima pagina. Movimenti, mondo pacifista, alterglobalisti, molti dei superstiti della carneficina di Genova, il miglior cattolicesimo democratico e chiunque avesse capito che la globalizzazione, così come ci era stata amanita, costituiva un suicidio, provava a dare la sveglia a una sinistra intorpidita, inesistente, prona al berlusconismo arrembante e cinica al punto di votare a favore dell’invio di truppe in Asia minore, nella speranza di accreditarsi agli occhi dell’America di Bush per poter riconquistare, un domani, il potere. Sappiamo com’è andata a finire. Il potere lo hanno ritrovato, il governo no, e meno che mai la possibilità di fare qualcosa di concreto, utile e positivo per l’Italia. Oggi L’Espresso versa nelle condizioni che ben conosciamo. Da ultimo, è stato rimosso all’improvviso Lirio Abbate dalla direzione, dopo che Damilano si era arreso, in seguito alla cessione della storica rivista dal gruppo GEDI all’ambizioso imprenditore Danilo Iervolino. Siamo, dunque, messi assai peggio di ventuno anni fa, specie se si considera l’importanza che ebbe quella testata nel contrasto ai fondamenti stessi del potere berlusconiano e nel dar voce all’altra Italia: quella che scendeva in piazza, manifestava, lottava e si batteva contro l’editto bulgaro, le censure, i bavagli e le leggi vergogna, quella animata dalla concreta speranza di ottenere verità e giustizia a proposito del massacro compiuto alla Diaz e nella caserma Nino Bixio di Bolzaneto. Oggi siamo rimasti quasi da soli a lottare. Di quell’Italia non c’è più nulla: né prospettive né speranza né futuro né partiti né sindacati, il vuoto assoluto, in un susseguirsi di scandali, dicerie e perdita complessiva di credibilità che sta rischiando di minare la tenuta stessa della democrazia.
Non può sorprendere, pertanto, che in un simile sfacelo i cosiddetti “Over the top”, i meta-stati che tutto possono, in virtù dello strapotere che esercitano sui dati e la libertà d’espressione di miliardi di persone in ogni angolo del globo, dettino legge. Non può sorprendere che Elon Musk, lo spregiudicato co-fondatore di Tesla, noto ovunque per il suo essere un imprenditore visionario ma, al tempo stesso, un uomo disposto a tutto pur di raggiungere i propri obiettivi, abbia deciso di piegare Twitter, il suo nuovo acquisto, agli interessi della galassia conservatrice, riammettendo Trump e favorendo la diffusione di menzogne relative alla pandemia, ai vaccini e non solo. È l’assalto globale della destra bannonista ai diritti umani, il sovranismo realizzato, il razzismo senza freni, la discriminazione teorizzata e attuata, la divisione sociale divenuta verbo e la distruzione di ogni principio di socialità, mentre brucia il falò delle vanità di una politica irriconoscibile, fragile e oggettivamente priva dei mezzi necessarie per difendersi.
È una dittatura economica di fatto, quella con cui siamo chiamati a convivere in questo tempo senza storia. Ci siamo illusi per un trentennio che la suddetta storia fosse finita con l’abbattimento del Muro di Berlino e, invece, oggi scopriamo, a nostre spese, che gli unici a essere finiti siamo noi, con il nostro universo valoriale e di principî. Del resto, basti pensare alla vicenda agghiacciante che sta emergendo nelle stanze del Parlamento europeo per rendersi conto di quale sia lo stato dell’arte. La sinistra della Terza via è una galassia che si è avvicinata agli affari, che ha iniziato a concepire la politica come fine e non più come mezzo, che ha anteposto la carriera individuale al bene comune e che si è riempita di degni interpreti di questa visione. Non entriamo nel merito dei singoli episodi né ci permetteremmo mai di emettere giudizi o vergare sentenze arbitrarie di condanna nei confronti ti di chicchessia. Prendiamo, tuttavia, atto di un andazzo che dura da troppo tempo, che pochi hanno avuto il coraggio di denunciare e dal quale ancor meno hanno avuto la forza di tenersi lontani. La piovra ci è entrata in casa e ha sconvolto le nostre vite, le nostre sezioni, il nostro modo di essere. Addio alle testate storiche, alla partecipazione, alle salamelle, alle passioni di una volta, agli operai e alle masse, ed ecco comparire i loft, i catering, i termini strani, le volgarità di una falsa modernità che ha beneficiato l’uno per cento della popolazione e condannato alla dannazione il restante novantanove; ecco che la sinistra della Terza via è diventata, ancor più della destra, la quintessenza della globalizzazione senza regole e senza dignità, fucina di tutte le ingiustizie e le disuguaglianze che, per natura, sarebbe chiamata a combattere.
Domandava Donald Trump alle folle inferocite dell’America operaia: “Cosa avete da perdere?”. Era il 2016 e a sfidarlo, sul versante democratico, c’era Hillary Clinton, fautrice degli accordi NAFTA per il libero mercato fra Stati Uniti, Messico e Canada, che nel 2026 si trasformeranno addirittura nell’organizzazione dei Mondiali di calcio. Le masse disperate scelsero il magnate. Che non sia certo un benefattore né, tanto meno, una personalità interessata alle esigenze e ai problemi dei poveri è superfluo ribadirlo; fatto sta che è riuscito a illuderli, a dimostrazione che, evidentemente, persino una destra come quella da lui incarnata riesce a risultare più credibile ed empatica agli occhi della povera gente. Se vogliamo capire Musk e gli abusi della dot economy, lo strapotere dei colossi del web e la progressiva scomparsa della società, in nome dell’individualismo sfrenato teorizzato, a suo tempo, dalla signora Thatacher, non possiamo, quindi, che partite da qui.
Avevo ventotto anni quando percorsi i corridoi desolati della redazione dell’Espresso. Ero andato a intervistare Damilano per la rivista AREL ma l’intervista saltò e venne rinviata di qualche giorno. La proprietà di allora, non ancora GEDI, aveva proposto un taglio del trenta per cento degli stipendi e l’aria, come potete immaginare, era alquanto tesa. Volli rimanere oltre un’ora, anche se avevo capito perfettamente che l’intervista non si sarebbe potuta svolgere quel giorno, e mi aggirai per le stanze di quello che, da adolescente, era stato il mio sogno, rendendomi conto che sarebbe rimasto tale per sempre. Tutte queste vicende si collegano, ai miei occhi di progressista: la sconfitta di una certa idea di giornalismo, la fine della sinistra, completamente annientata da persone che l’hanno condotta nel baratro, l’ascesa del nazionalismo sfrenato, la xenofobia che domina pressoché ovunque, la corruzione dilagante, le piattaforme digitali che stanno ingoiando l’essere umano, in una riproposizione reale di “2001: Odissea nello spazio”, e il 2001, sempre lui, anno fatidico, che rimane sullo sfondo come spartiacque e punto di non ritorno fra due mondi. Ce n’era uno, possibile e necessario, ma venne letteralmente incendiato nell’estate di quell’anno, fra i tonfa di Genova e il collasso di New York. E poi c’era l’altro, quello degli oligarchi, pericolosi a ogni latitudine, che siano americani, russi, arabi o di qualunque altra nazionalità, che è diventato egemone e ha assoggettato la politica ai propri desiderata. Al che, ci torna in mente una straziante profezia di Alfredo Reichlin: “La finanza governa, i tecnici eseguono e i politici vanno in televisione”. È andata così, e le conseguenze sono sotto gli occhi di chiunque.
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