Tra i tanti esordi narrativi regalati dall’anno in corso, quello di Valerio Principessa, studi scientifici e una grande passione per l’affabulazione maturata già nell’infanzia, contiene elementi di forte fascino, soprattutto per un pubblico di lettori giovani, ma non risponde pienamente alle intriganti premesse.
La casa del tè, edito da Feltrinelli, è infatti un romanzo parzialmente riuscito che apre uno spiraglio sulla dinamiche interne di un’improbabile casa famiglia gestita da un’anziana giapponese, Michiko, dedita alla cura delle ferite interiori dei suoi ospiti attraverso una continua mescita di tè e sorrisi empatici, e da uno strampalato francese, Bernard, che custodisce in boccette di vetro gli odori di sensazioni ed emozioni e che costituisce il cuore pulsante della ricca biblioteca cui i ragazzi attingono spinti da motivazioni diverse.
Gabriel, voce narrante e protagonista, è un ragazzo di età indefinita (si può ipotizzare sia ormai alle soglie della maggiore età), molto adulto nei pensieri come spesso accade a chi è costretto a crescere precocemente. Ha perso la nonna con la quale viveva, unico porto sicuro di una vita che si intuisce difficile e zeppa di cose di cui vergognarsi, porta al polso un orologio fermo, simbolo del tempo immobile di chi si dibatte in pantani esistenziali, e si ritrova nella Casa Retrouvailles, con altri ragazzi spezzati e immersi in silenziose pozze di sofferenza.
Ogni ospite ha piaghe aperte nelle quali Gabriel, come ha saggiamente imparato a sue spese, non mette il dito, e dolori maceranti con cui convivere. Tutti, una volta entrati in quella che vorrebbe proporsi come una bolla di serenità, devono lasciare un oggetto in una cesta, bisogna lasciare “ciò che eri e non sarai mai più” precisa Michiko con il chiaro intento di mettere a fuoco l’obiettivo da raggiungere per ottenere la propria rinascita.
Principessa consegna al lettore i personaggi con tenerezza e finezza psicologica, ne fa sgualcite figurine di un sottobosco sociale dominato da una singolare morale e da un rispetto reciproco che passa dalla condivisione del male, inflitto o subìto. Così conosciamo Chiara, la ragazza di brina dai capelli sugli occhi, appassionata di astronomia alla quale l’autore regala probabilmente un suo personale interesse; Leo, bambino logorroico alla perenne ricerca di attenzioni e affetto; Greta, la ragazza dai capelli color miele perennemente tuffata sullo schermo del cellulare a dialogare con se stessa per confermare la propria esistenza; Amina, silenziosa giovane donna nera aggrappata ad un bambolotto; Scar, il più problematico e ambiguo dei personaggi, dotato di una personalità scissa che contiene punte estreme di violenza e sussulti di generosità e abnegazione.
I personaggi esterni alla Casa invece appaiono meno convincenti, sembrano inseriti per arricchire un plot che altrimenti risulterebbe scarno di avvenimenti o per innestarvi snodi rivelatori, come il barbone Natale o il “cantastorie” cieco Kojo. La collocazione, tra le pagine, di messaggi con mittente e destinatario ignoti, risulta inoltre piuttosto discutibile, perché nulla aggiunge alla sofferenza del personaggio (si comprenderà alla fine quale, ma non è difficile arrivarci d’intuito) e crea semmai una fastidiosa ridondanza narrativa.
La frattura nella placida e stagnante sopravvivenza dei ragazzi arriva con un’ulteriore assenza, dura come uno schiaffo in pieno viso, quella della signora Michiko, il polo d’attrazione, il surrogato materno, l’ago della bilancia, il deposito di parole consolatorie sempre pronto al soccorso emotivo. Ma sarà proprio da quella mancanza che scaturiranno altri equilibri e inesplorate dinamiche in grado di riplasmare il piccolo universo e donargli nuovi precari baricentri.
La parte oscura del breve vissuto dei personaggi emerge lentamente, ma poi si svela del tutto con una brusca accelerazione nella parte finale del libro, talvolta in modo sbrigativo e forzato – come la storia di Amina, condensata in una lettera che apre un sipario noto sulle vergognose e atroci peregrinazioni dei migranti – quasi a voler soddisfare residue curiosità e non l’esigenza insita nella narrazione.
La vicenda inizialmente si dipana con un linguaggio semplice fino alla banalità, rimpolpato da etimologie, citazioni, informazioni curiose, fenomeni fisici, riferimenti scientifici (talmente ampi e tecnici da rallentare parecchio il ritmo della narrazione) e filosofici, frasi ad effetto che sembrano sassi piazzati su un fragile ordito. Poi pian piano la prosa prende quota e si assesta su un livello piano e godibile e quelli che sembravano pezzi aggregati diventano tasselli che fungono da colonna sonora, una peculiarità dell’autore. È il caso delle parole intraducibili in altra lingua, la parte più intrigante e civettuola di questo complesso procedimento di accumulazione lessicale, quelle di cui il protagonista subisce il fascino, che vengono disseminate qua e là a seconda dei contesti e che costituiscono il sottotitolo alle fotografie mentali che Gabriel conserva di piccoli momenti che assumono importanza cruciale nel suo personalissimo percorso di crescita.
L’autore guarda al Giappone con l’interesse che ormai da più di un decennio appartiene alle giovanissime generazioni e lo innesta in modo singolare in un rione romano con una commistione sapida e accattivante. Lo sguardo posato sulle vite sdrucite dei giovani emarginati è però prevalentemente letterario, la voglia di raccontare storie sembra prendere talvolta il sopravvento e dominare le pagine in cui personaggi come Kojo diventano narratori di secondo grado pur di incrementare il piacere del racconto quasi (perché comunque una funzione interna Principessa ad essi attribuisce) fine a se stesso. Ecco allora che questa chiave di scrittura se da una parte allontana da un processo di mimesi dall’altra ne costituisce l’originalità.
Preziosa la copertina di Bianca Bagnarelli, per grafica e colori, che attira lo sguardo a chilometri di distanza.
Valerio Principessa
La casa del tè
Feltrinelli editore
pp.283
16,00 €