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La parola “patria”: una posta in gioco

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Lo stimolante articolo che Nino Criscenti ha dedicato al “vero volto della patria” secondo Piero Calamandrei invita a una breve riflessione. Le parole hanno una storia e il mutamento del loro significato è talvolta l’esito di aspri scontri politici e ideologici poiché quando rinviano a valori e ideali, le parole diventano una posta in gioco del conflitto. La patria, ad esempio, durante il Risorgimento, rappresentava un popolo che si riconosce in una stessa storia, cultura, lingua e tradizione. Durante il fascismo, la parola s’impregnò di revanscismo per “la vittoria mutilata”, di retorica nazionalista (il sacro suolo della Patria) e di bellicose ambizioni imperiali. Ci volle la Resistenza, quindi una guerra di liberazione nazionale, per restituire alla parola patria il significato originario, spogliandola dei suoi orpelli patriottardi.

Alla fine degli anni sessanta del secolo scorso, vittima di un malinteso internazionalismo e di un astratto cosmopolitismo, diffuso soprattutto trai giovani, l’idea di patria fu relegata nell’alveo di un retrivo sciovinismo: un regalo inaspettato – ma particolarmente gradito – per la destra reazionaria e neofascista che l’assunse per rafforzare il suo tratto identitario. Eppure, non c’era stato nessun cedimento sull’idea di patria, neanche formale, da parte del PCI di Togliatti quando, nel dopoguerra, commissionò a Guttuso il simbolo del partito nel quale la bandiera italiana faceva da sfondo a quella con la falce e il martello: una rivendicazione di patriottismo e di sovranità nazionale di cui i comunisti italiani dettero prova nell’Assemblea Costituente e nella difesa della patria repubblicana durante gli anni del terrorismo.

Alla fine del XX secolo, il presidente Ciampi cercò di porre rimedio a quella indebita concessione fatta alla destra, lanciando una campagna ispirata a un patriottismo democratico: restituì dignità all’inno di Mameli e al tricolore, caldeggiò il restauro del Vittoriano, ripristinò la sfilata del 2 giugno; ma il suo tentativo di restituire la patria alle forze progressiste si esaurì con la fine del suo mandato. Molti, anche a sinistra, tirarono un sospiro di sollievo.

Il resto è noto: grazie ai diritti “esclusivi” concessi alla destra reazionaria, la parola patria, non più presidiata, è stata sottoposta a un ulteriore tentativo di slittamento semantico in chiave sovranista, oligarchica e secessionista su base etnica da parte dei fautori delle democrazie illiberali e delle democrature che pure andrebbero contrastate sbandierando, innanzitutto, un sano patriottismo costituzionale: un sentimento semplice, romantico e universale come quello cantato dal partigiano di Bella ciao, pronto a morire per la libertà.

La guerra delle parole, come tutte le guerre, richiede intelligenza strategica e consapevolezza della posta in gioco; soprattutto non contempla concessioni perché

non si scherza con le parole!


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