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Enrico Mattei, la grandezza perduta dell’Italia

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Era il 27 ottobre 1962, un piovoso sabato di sessant’anni fa, quando l’aereo su cui viaggiava il presidente dell’ENI, Enrico Mattei, ebbe un misterioso incidente nei cieli di Bascapé, in provincia di Pavia, mentre rientrava a Milano dalla Sicilia. Molte ipotesi sono state avanzate in tal senso, a cominciare da quelle esposte da un gioiello di Francesco Rosi, “Il caso Mattei”, anche grazie alla consulenza di Mauro De Mauro, il giornalista dell’Ora di Palermo fatto sparire dalla mafia il 16 settembre del ’70, qualcuno sostiene proprio perché aveva compreso ed era pronto a rivelare le dinamiche esatte, e soprattutto i mandanti, di quello che già allora ai più appariva come un attentato che come un incidente.

Enrico Mattei, marchigiano, classe 1906, partì dal basso ma si diede subito da fare. Fiuto e talento imprenditoriale, del resto, non gli erano mai mancati, al pari del coraggio, che lo indusse a partecipare alla Resistenza da partigiano bianco e a ad assumere le redini dell’AGIP nell’immediato dopoguerra. Era stato chiamato dalla DC a liquidarla, anche per non interferire con gli interessi americani, ma il nostro, invece, la rilanciò alla grande. Dove gli altri vedevano un’azienda devastata dalla guerra e, sostanzialmente, esanime, lui vide, all’opposto, un’opportunità di crescita per il Paese. Il suo sogno era l’autonomia energetica di uno Stato che non possedeva risorse proprie ma poteva farcela grazie all’abilità di chi sapeva come muoversi sul mercato. Senza contare la valorizzazione dei piccoli giacimenti nazionali, a cominciare da quello di Cortemaggiore, in provincia di Piacenza, che Mattei sfruttò al massimo, con una campagna pubblicitaria modernissima e lo slogan relativo alla “potente benzina italiana”.
E poi il cane a sei zampe, icona degli anni Cinqunata e del successivo boom economico, preludio ad altre due intuizioni che, con ogni probabilità, gli sono costate la vita. Mattei, infatti, aveva deciso di anteporre l’interesse nazionale alle alleanze e alla collocazione internazionale dell’Italia, trattando da pari a pari e proponendo il “fifty-fifty” ai paesi arabi che si stavano emancipando dalla colonizzazione europea e osando addirittura fare affari con l’Unione Sovietica, spingendo lo sguardo oltre la Cortina di ferro negli anni in cui a Berlino iniziava la costruzione del Muro. Fu questa politica dichiaratamente autonoma e smaccatamente filo-araba a dar fastidio a quelle che il presidente dell’ENI, la degna evoluzione dell’AGIP, definiva le “Sette sorelle”, un potentissimo cartello di industrie petrolifere, per lo più americane, che faceva e voleva continuare a fare il bello e il cattivo tempo, dettando legge ed evitando che la politica estera dei singoli stati coincidesse con la loro politica energetica. Mattei, al contrario, era dell’idea che l’interesse nazionale dovesse venire prima di tutto, anche dei diktat provenienti da oltreoceano, e non aveva particolare stima dei partiti, che considerava alla stregua di taxi di cui servirsi all’occorrenza. Non a caso, pur essendo di matrice democristiana, per stringere accordi con i sovietici, non aveva esitato a chiedere aiuto al futuro segretario del PCI, Luigi Longo, ritenendo che la spregiudicatezza fosse necessaria al mantenimento della competitività e del prestigio della sua creatura.
La lungimiranza dell’uomo, tuttavia, andava al di là del mero ambito energetico, avendo compreso, prima e meglio di altri, l’importanza dell’editoria e della comunicazione. Anche per questo contribuì a fondare il quotidiano “Il giorno”, uno dei simboli del boom e della stagione dello sviluppo che condusse l’Italia fuori dalla sua condizione di paesello agricolo e in una dimensione mai sperimentata prima. Eppure, la libertà di stampa era un caposaldo del suo pensiero liberale e della sua visione del mondo, tanto che su quello stesso quotidiano, all’epoca diretto da Italo Pietra, Giorgio Bocca poté permettersi il lusso di recarsi a Vigevano e porre una pietra tombale su quella stagione fortunata, mettendo in guardia la cittadinanza sui rischi che stavamo correndo. “Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste”: un attacco magistrale, quasi pasoliniano, in netto contrasto con l’ideologia della crescita illimitata, allora dominante, che ci avrebbe condotto nel baratro. E proprio Pasolini sarà uno degli intellettuali che incontreranno, lungo il proprio percorso professionale, la vicenda di Mattei, quando, durante la stesura di “Petrolio”, il romanzo uscito postumo molti anni dopo il suo assassinio all’Idroscalo di Ostia, arriverà a ipotizzare un coinvolgimento di “Troya”, il personaggio che incarnava in tutto e per tutto Eugenio Cefis, successore di Mattei, nella stagione delle stragi e della Strategia della tensione. Alcuni osservatori si sono spinti addirittura a sospettare che Pasolini sia stato ucciso perché aveva scoperto, di fatto, l’esistenza della P2, legata non solo alla collocazione internazionale dell’Italia ma anche al suo modello industriale e di sviluppo, alle sue fonti di approvvigionamento energetico e al suo grado di autonomia decisionale.
L’utopia concreta di Mattei era di vivere in un’Italia pienamente indipendente, in cui non ci fosse alcun gusto, sono parole sue, a essere ricchi in un paese povero. Aveva, insomma, in mente un’idea di grandezza, di autonomia, di venirsi incontro e prendersi per mano, proprio come accadde a Firenze grazie all’intesa con l’allora sindaco Giorgio La Pira in merito alle sorti del Pignone. Il Nuovo Pignone, non a caso, costituisce uno dei meriti più importanti di questo capitano d’industria sui generis, nazionalista senza l’ombra del sovranismo, non disposto a prendere ordini dalla politica, rivoluzionario nelle idee e nei metodi, a tratti anche cinico ma colmo di visione, amor patrio e autentici lampi di genio.
Erano gli anni in cui l’Italia primeggiava in molti settori: dalle intuizioni di Olivetti alle prospettive del nucleare garantite dal presidente del CNEN, Felice Ippolito, passando per la potenza decisionale e l’influenza di Mattei a capo dell’ENI. Un periodo, dunque, irripetibile, basato sullo sguardo sul mondo di uomini che non erano disposti a sottomettersi a chicchessia e avevano una concezione risorgimentale della politica e dei rapporti di forza.
Probabilmente, non sapremo mai come siano andate effettivamente le cose ma lo possiamo facilmente immaginare, sia pur con una punta di malizia. Perché il petrolio e le fonti energetiche muovono il mondo in tutti i sensi e, da sempre, determinano le sorti degli stati, dei governi, del potere e della politica nel suo complesso. E Mattei dava fastidio a tanti, troppi, in quanto non era ricattabile, non accettava condizionamenti che non fossero legati alle esigenze dell’Italia e non sopportava vincoli che ci avrebbero arrecato nocumento. Basti pensare al dibattito attuale per rendersi conto di cosa abbia significato la sua morte, quanto avesse ragione e quanto avessero, drammaticamente, torto i suoi successori. O forse, a differenza sua, avevano capito fino in fondo come si poteva e si doveva stare in questo nuovo mondo, in cui i destini del nostro Paese non sempre vengono decisi a Roma.

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