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Afghanistan: la nazione senza diritti per donne e minoranze. L’emozionante racconto di Fatima Haidari

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Fatima Haidari è una giovane donna afgana. È minuta e si aggiusta in continuazione il velo leggero con cui copre la sua testa. Ha sempre il cellulare in mano, perché grazie a quell’oggetto parla con i parenti rimasti in Afghanistan, collabora con un sito turistico, segue le notizie, chatta con il suo fidanzato. Quel telefonino è diventato il legame con i suoi due mondi: quello del passato, cancellato dall’oscurantismo talebano, e quello del futuro che l’ha portata – un po’ casualmente – in Italia, fra poco la porterà alla Bocconi e domani chissà dove.

Quando insieme a Riccardo Noury e Elisa Marincola abbiamo cominciato a ragionare sul primo anniversario della “fuga” da Kabul cercavamo una storia comune da raccontare, a dimostrazione della forza d’urto che i talebani hanno sull’intera società afgana. Fatima Haidari ha una storia comune. Ultima figlia in una famiglia dell’Afghanistan rurale, vorrebbe studiare ma ci sono mille difficoltà. Le viene in aiuto una ong religiosa che le insegna l’inglese. Lo impara così bene che inizia a spiegarlo alle ragazze come lei. Poi realizza che quella lingua può essere lo strumento da usare per fare la guida turistica a Herat. Questa sua intraprendenza, questo “normale” desiderio di indipendenza e normalità diventano nel 2021 la sua condanna. “Sei sulla black list dei talebani, ti conviene scappare”, le dicono. E lei fugge. Non riesce a salire sul primo aereo, torna nel suo “rifugio” a Kabul e lo trova sbarrato, la sua valigia non c’è più. Il caso vuole che nel caos di quei giorni un soldato italiano riesce a imbarcarla su un volo diretto a Roma. Fatima Haidari ha solo 24 anni ma ha già vissuto tutto questo.

Cosa ci dice la sua storia. Se non fosse troppo scomodare Hannah Arendt diremmo che è la banalità del male: sei donna, parli inglese, vuoi lavorare e questo basta alla macchina repressiva talebana per considerarla pericolosa. Se poi aggiungiamo che Fatima è della minoranza hazara – “quella con gli occhi da cinese”, dice mostrando il taglio degli occhi – capiamo che per lei non c’era futuro in Afghanistan. Così come, per ora, non c’è neppure un presente per le donne afgane rese invisibili anche fisicamente dall’obbligo di coprirsi dalla testa ai piedi.

Ma la sua storia ci dice molto altro: che dove non arrivano le istituzioni pubbliche possono arrivare le ONG, che danno rifugio e speranze alla gente del posto. E ancora: che una guerra sanguinosa – quella di Putin all’Ucraina – non scaccia le altre guerre, altrettanto sanguinose in corso contemporaneamente. “Non dimenticatevi dell’Afghanistan, non riconoscete quel governo”, chiede Fatima Haidari. Infine la sua storia ci dice che le istituzioni italiane hanno saputo accogliere con efficienza e tatto donne e uomini come lei che scappavano da quella crisi, da quelle violenze, da quei pericoli. E queste sono – pardon, dovrebbero essere – le uniche condizioni su cui basare la concessione dell’asilo, e non, come accade, decidendo sulla base del clamore mediatico intorno alle nazioni da cui fuggono.

L’incontro di Fatima Haidari a Milano, una domenica di metà agosto, prima di un concerto (grazie alla sensibilità di Musicamorfosi e del Comune di Milano) ha richiamato davvero tante persone. L’applauso più lungo è arrivato quando lei ha spiegato che “femminista” in Afghanistan è un’offesa, quando non addirittura un’accusa; ma – ha aggiunto – “se essere femminista vuol dire battersi per i diritti delle donne, essere un punto di riferimento per le bambine e le ragazze, allora sì, io sono femminista”.

Il momento per lei più emozionante è stato però un altro: a sorpresa le abbiamo fatto srotolare una grande bandiera dell’Afghanistan: “la bandiera più bella del mondo”, ha detto al microfono prima di ritornare alla sua nuova vita di rifugiata. (Grazie a Angela Bartolo per la foto).


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