Alaa Abd el-Fattah, l’attivista e prigioniero di coscienza egiziano condannato alla fine del 2021 a cinque anni di carcere solo per il suo impegno in favore dei diritti umani, dovrebbe oggi essere al giorno 118 dello sciopero della fame.
Dovrebbe, perché di lui non si hanno notizie dal 16 luglio, quando alla madre in visita al carcere venne consegnata una sua lettera.
Il comportamento delle autorità egiziane è scandaloso, e non lo è da meno il silenzio del resto del mondo: soprattutto delle autorità del Regno Unito, di cui Alaa ha il passaporto.
Alaa non riesce a esercitare il diritto di visita consolare. Ma non solo: l’ostinazione con cui la direzione della prigione lo tiene isolato dal mondo esterno provoca un’angoscia indicibile nei suoi familiari e, di riflesso, in tutte le persone che in Italia dal 28 maggio stanno digiunando 24 ore, a staffetta, in segno di solidarietà.
Un detenuto in sciopero della fame, proprio per via delle condizioni di salute critiche in cui si trova, dovrebbe poter avere accanto avvocati e familiari; gli dovrebbero essere garantite tutte le cure mediche cui ha diritto, comprese visite di medici indipendenti vincolati al rispetto della loro etica professionale.
Nulla di tutto questo, purtroppo. Alaa dovrebbe essere ancora vivo e alla vigilia del quarto mese dall’avvio dello sciopero della fame. Dovrebbe, per l’appunto. Ma non lo sappiamo.
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