Beppe Pericu era, innanzitutto, un uomo perbene. Un uomo buono, giusto, colto, un amministratore che amava la sua città e l’ha difesa ogni giorno senza mai risparmiarsi. Aveva ottantaquattro anni e, quando ho appreso la notizia della sua scomparsa, ho fatto fatica a trattenere le lacrime. Lo avrei voluto sentire al telefono, ci eravamo lasciati, l’ultima volta, con la promessa che prima o poi ci saremmo presi un caffè a Genova: un appuntamento che non ci sarà, e ci tengo a mettere in evidenza questo tratto personale perché a Beppe volevo bene. Ricordo ancora l’estrema dignità con cui difese la sua città nei giorni tragici del G8. Ricordo le sue dichiarazioni sul fatto che fosse stata presidiata la Zona rossa e abbandonata Genova alla furia dei black block. Ricordo il suo impegno a favore dei manifestanti pacifici e, soprattutto, delle vittime di soprusi indicibili. Ricordo che la sua presenza si fece sentire eccome durante i processi, quando si prese cura delle parti offese, a cominciare dagli stranieri: ragazze e ragazzi di cui non interessava quasi niente a nessuno, gli ultimi fra gli ultimi, i più colpiti, feriti e umiliati, in un Paese che senza l’impegno suo, di Marta Vincenzi e di pochi altri rappresentanti istituzionali non avrebbe più avuto la dignità di presentarsi agli occhi del mondo.
Pericu non si è mai tirato indietro, costruendo una comunità solidale e valorizzandola senza mai tirarsi indietro, tanto che è stato a lungo rimpianto, specie nell’ultimo decennio, anche se non è questa la sede adatta per sollevare polemiche politiche. Se ne va in una fase storica nella quale si vota sempre meno, persino in una città storicamente animata da coraggio e passione civile come Genova, mentre l’Italia sembra sull’orlo del collasso, le nuove generazioni non vedono alcuna prospettiva davanti a sé e la partecipazione alla cosa pubblica si assottiglia sempre di più.
Tornando a quell’estate straziante, che spiega bene per quale motivo siamo ridotti così, non dimenticherò mai lo sgomento della persona, prim’ancora che del sindaco, per la vergogna delle grate nel centro storico: gabbie oscene che rendevano la vita impossibile alla cittadinanza, davano l’idea del clima che si respirava e trasmettevano una sensazione di paura e insicurezza. Una città devastata, massacrata nell’anima e nel corpo, condannata a una divisione pericolosa e inutile, infestata dalla violenza e mai davvero liberata dal terrore di quel luglio che ha segnato per sempre la storia nazionale. Ne parlammo quando venne ospite dell’inchiesta che ho dedicato a quel G8, mettendo in relazione e la tragedia del 2001 a quella del ’60, e mi sorprese non solo per la profonda lucidità d’analisi ma anche per il dolore che era ancora tangibile nei suoi occhi.
Pericu visse la barbarie della Diaz, l’inferno di Bolzaneto e, ovviamente, anche la mattanza lungo le strade e a Forte San Giuliano come uno stupro della democrazia, un danno d’immagine eterno per Genova e per l’Italia, un incubo che non ci ha mai abbandonato e ancora oggi condiziona le vicende politiche e civili. L’ho detto tante volte e lo ribadisco: la caserma di Bolzaneto è quanto di più simile a via Tasso sia avvenuto dal dopoguerra, con la differenza che quella era la Roma di Kappler mentre la Genova di inizio secolo era una città pienamente democratica, medaglia d’oro della Resistenza, ben amministrata e nella quale si era votato due mesi prima per le Politiche. Tutto questo rende quella catastrofe ancora più inaccettabile e priva di ogni giustificazione.
Era un uomo pratico, Pericu, ma animato da grandi ideali. Un uomo del fare ma anche del pensare, capace di coniugare il ragionamento e l’azione, una visione del mondo precisa e chiarissima a un pragmatismo che non sfociava mai nel cinismo o nella cattiveria. L’ho guardato intensamente negli occhi mentre rievocava la vicenda più drammatica che si era trovato a gestire e avvertivo in lui un profondo senso di ingiustizia e di scoramento, una rabbia intensa che lo induceva a riflettere sul futuro, affinché non solo non si verificasse mai più da nessuna parte cio che aveva visto da vicino in quei giorni ma, al contrario, le nuove generazioni fossero ascoltate, comprese e aiutate a trovare il proprio posto nel mondo.
Se ne va, come detto, nel momento peggiore per la politica italiana, in una stagione nella quale ci sentiamo tutte e tutti più soli e più fragili, nel deserto della rappresentanza e nel vuoto delle idee. Se ne va e noi restiamo aggrappati alla memoria, al silenzio, alla sofferenza, a tutti quei sentimenti che provammo allora e non ci abbandoneranno mai. Caro Beppe, posso farti solo una promessa: non scorderò nulla. Quella vicenda, quell’inchiesta, il nostro incontro del resto, sono stati momenti che mi hanno cambiato per sempre. Cercherò di farne tesoro, di metterli a frutto, di farne la mia guida negli anni a venire. Il dolore, tuttavia, non si attenua, al pari della nostalgia per una concezione dello stare insieme di cui oggi si avverte la mancanza.
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