Boris Pahor, morto stanotte nella sua casa di Trieste all’età di 108 anni, è stato uno dei più grandi scrittori di lingua slovena, testimone degli orrori del Novecento e sempre dalla parte degli opressi e dei vinti. Durante la seconda guerra mondiale ha aderito a Trieste al Fronte di liberazione nazionale sloveno ed è stato deportato nei lager nazisti, esperienza cui ha dato voce in gran parte della sua produzione letteraria, in particolare nel romanzo autobiografico Necropoli.
Strenuo difensore della libertà e della dignità umana, ha trovato negli umiliati e negli offesi i protagonisti della sua opera letteraria, come anche del suo pensiero storico e politico. Pahor è autore di una trentina di volumi, fra narrativa e saggistica, tradotti in più di venti lingue. Dal presidente Sergio Mattarella è stato insignito con l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
Pahor si è occupato anche di giornalismo, nel dopoguerra collaboratore del quotidiano in lingua slovena Primorski dnevnik e della redazione RAI sempre in lingua slovena del Friuli Venezia Giulia. Nella sua lunga vita si è sempre adoperato per la libertà di stampa e i diritti dei giornalisti. Negli anni settanta del secolo scorso è stato a Trieste tra i principali promotori della rivista Zaliv che si distinse per le sue posizioni critiche verso il regime jugoslavo e per l’appoggio allo scrittore e intellettuale cattolico sloveno Edvard Kocbek.
Kocbek è stato uno dei fondatori del Fronte di liberazione nazionale sloveno, diventato nel dopoguerra un dissidente. Nel 1975, assieme all’amico scrittore Alojz Rebula, Pahor ha pubblicato a Trieste il libro ‘Edvard Kocbek: testimone della nostra epoca’ nel quale Kocbek denuncia il massacro dei prigionieri di guerra, appartenenti alle milizie collaborazioniste e anticomuniste slovene. Il libro provocò durissime reazioni in tutta la Jugoslavia, la rivista Zaliv venne vietata e a Pahor fu per molti anni impedito l’ingresso nel paese.
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