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Jan Brokken, come cogliere l’anima delle città

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“L’uomo cammina per giornate tra gli alberi e le pietre. Raramente l’occhio si ferma su una cosa, ed è quando l’ha riconosciuta per il segno di un’altra cosa … Tutto il resto è muto e intercambiabile; alberi e pietre sono soltanto ciò che sono.” (I. Calvino , Le città invisibili). Già nell’esergo de “L’anima delle città”, 2021, Jan Brokken ci rivela che cosa ci può illuminare nel nostro cammino, nei percorsi, nelle esplorazioni, nel nostro rapporto con lo spazio: il riconoscimento, il cogliere il segno di una cosa in un’altra cosa. L’anima di una città è complessa, misteriosa, frutto di stratificazioni storiche e non tutto ritengo possa essere colto, ma cercando una chiave si può giungere a qualcosa di essenziale, che disvela qualcosa di profondo alla nostra stessa anima. L’autore racconta dodici città: Amsterdam, Bologna,Vilnius, Aizpute, Arcachon, Bergamo, Cagliari, Dusseldorf, Parigi, Kyoto, Middelharnis, Leningrado. Per penetrarle si serve di diverse chiavi: figure di artisti, dipinti, fotografie, relazioni, incontri fortuiti e narra di personaggi fuori dell’ordinario cogliendo la loro relazione con quei luoghi.

La predilezione che Mahler sviluppò per Amsterdam non aveva nulla a che fare con le caratteristiche di una città dove, come lui stesso disse “piove sempre e c’è un baccano infernale” (allora Amsterdam era essenzialmente una città legata alle attività portuali), ma deriva dal fatto che la città divenne per il musicista “una patria musicale” per il rapporto prima professionale, di affinità artistica e infine di stima e amicizia reciproca con Willem Mengelberg, che dirigeva in modo impeccabile l’orchestra del Concertgeboun di Amsterdam e che invitò Mahler in città. Tra i due si sviluppò una graduale e straordinaria intesa. Mengelberg si faceva mandare da Mahler gli spartiti prima del suo arrivo e li studiava meticolosamente insieme all’orchestra prima delle prove e così, alla presenza di Mahler, l’esecuzione risultava da subito quasi perfetta. Mengelberg arrivò a una comprensione così profonda del metodo di composizione dell’amico che gli indicava imperfezioni o omissioni che si potevano risolvere con qualche piccolo aggiustamento e l’autore arrivò a considerare Mengelberg “una versione più giovane di se stesso” e a preferire la sua direzione alla propria. Mahaler si recò molte volte ad Amsterdam e il pubblico, grazie a quella perfetta collaborazione fra i due musicisti, riuscì a capire e amare la musica di Mahler più che il pubblico di Vienna, la sua città; fu così che “la città finì con l’appartenere a Mahler, e Mahler ad Amsterdam”.

Coinvolgente è lo stretto rapporto che Jan Brokken crea tra Morandi e Bologna, una città bella, ma non straordinaria, dove però si vive molto bene, per cui l’abitudinario Morandi non trova motivo di allontanarsene, nemmeno quando raggiunge la celebrità e viene invitato in tutto il mondo. Morandi è l’anti Brokken, che a un certo punto si chiede: “Un’esistenza sedentaria. Come mai l’apprezzo, io il viaggiatore, l’eterno irrequieto? A volte dentro di noi un estremo desidera l’estremo opposto”. Del resto fin dall’incipit del racconto Brokken afferma di capire Bologna, perché quando sei cresciuto in una città con una qualità della vita come quella di Bologna non hai bisogno di andare a vedere se la vita sia meglio altrove. Si dice che Morandi fosse un incorreggibile ottimista, dipingeva paesaggi sempre azzurri, in cui non comparivano le nuvole, mai un tramonto o un’alba. “Per lui la vita andava vissuta come se non avesse inizio né fine.” Nel suo studio non voleva che le sorelle spolverassero le bottiglie, le brocche, gli oggetti reali, del quotidiano che popolano invariabilmente i suoi quadri, “per Morandi di nuovo al mondo non c’era nulla o pochissimo” e condivideva la stessa concezione di Proust “per Proust il vero viaggio non consisteva nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”.

Bergamo è la seconda città italiana di cui ci parla Brokken, che vi giunge in seguito ai ripetuti inviti di Mimma Forlani, una studiosa e animatrice della vita culturale della città, che lo condurrà soprattutto nella Bergamo di Donizetti, che in questa città nacque e morì. Di umili origini il musicista ebbe dei bergamaschi la dote di instancabile lavoratore. Aveva una straordinaria facilità nella composizione dovuta a una sublime sensibilità per la melodia e a una eccezionale capacità di concentrazione. Scrisse alcune delle sue opere in meno di due settimane e portò a termine il suo melodramma più famoso, Lucia di Lammermoor, in non più di due mesi. A soli venticinque anni fu nominato direttore del Teatro Nuovo di Napoli, dove rimase per sedici anni e da allora non ebbe più problemi finanziari. La sua carriera ebbe alti e bassi, ma i suoi lavori venivano rappresentati alla Scala di Milano, a Pietroburgo e a Parigi, la sede da lui più ambita e che conquistò definitivamente con le sue ultime opere. Ma nel 1840, quando tornò per un giorno a Bergamo per presenziare al Teatro sociale d una sua opera giovanile, L’esule di Roma, e la città le tributò un trionfo eccezionale, fu solo allora che scrisse a un amico di infanzia “che la vergogna delle sue origini era ormai definitivamente superata”. Attualmente si ritiene che Rossini, che trionfò a Napoli nel teatro in cui Donizetti avrebbe raccolto i suoi successi, abbia costituito il collegamento tra Mozart e Donizetti, così come quest’ultimo, insieme a Bellini, portò l’opera da Rossini a Verdi. Tutte le opere di Verdi parlano della lotta dei deboli contro i potenti, Donizetti cercò di tenersi lontano dalla politica e parlò di un altro tipo di oppressione. Le sue eroine Lucia, Anna Bolena, Lucrezia Borgia, Maria Stuarda sono donne che “ si rifiutano di essere solamente dei buoni partiti per un matrimonio di interesse e prendono in mano il proprio destino; la follia o la morte ne sono la conseguenza. Nella seconda metà del XIX secolo tutte quelle opere scomparvero dal repertorio e non a caso tornarono in cartellone negli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo”.

La terza città italiana di cui ci parla Brokken è Cagliari, dove si reca subito a visitare l’Orto botanico e a questo punto ribadisce che i luoghi che ci attirano in un modo o nell’altro sono sempre legati a un’esperienza precedente. La sua passione per gli orti botanici risale alla sua infanzia quando durante le vacanze faceva una passeggiata nell’Hortus botanicus sul Rapenburg insieme al suo amato nonno e per questo forse avrebbe visitato l’orto botanico di Cagliari anche se non avesse scoperto che era stato costruito con grande perizia da Eva Mameli, prima botanica e una delle prime docenti universitarie italiane, oltre che madre di Italo Calvino. Tuttavia la circostanza lo induce a indagare sul legame tra lo scrittore e la storia della sua famiglia per scoprire le radici della sua prosa fantastica, in cui la natura gioca un ruolo dominante. Il padre di Calvino era un botanico e Italo cercò di seguire le orme dei genitori iscrivendosi alla facoltà di Agraria di Torino, ma dopo la guerra si laureò in Lettere e trovò la sua strada nell’impegno politico e nella sua attività di scrittore. Le due attività, sostiene Brokken, sembravano in qualche modo separate e nei suoi romanzi e racconti Calvino “tornava sempre al mondo della sua giovinezza, un mondo di piante, fiori e alberi”. Anche la trilogia I nostri antenati ci manda un messaggio chiaro, quello della importanza degli antenati che stanno “al di sopra anziché in mezzo a noi”. Mentre vaga per l’Orto botanico, ripensando alla famiglia di Calvino e a sua figlia scrittrice, Brokken si chiede se possiamo mai sfuggire alle nostre origini, se tutto è deciso nelle nostre cellule. Egli infatti ritrova nella rigorosa organizzazione dell’Orto botanico di Cagliari lo stesso rigore scientifico, la stessa precisione e accuratezza delle opere di Italo “E anche se non è così – aggiunge – mi piace pensare che nessuno scompare senza lasciare in eredità un’orma, un’impronta digitale o un’idea”. Così conclude il capitolo l’autore e mi sembra il senso profondo del suo viaggiare, del suo narrare e della sua ricerca di vita.

Mi sono soffermata solo su alcune città e in particolare sull’omaggio che Brokken rivolge all’Italia, ma tutti i racconti sono ricchi e coinvolgenti: la complessa situazione storico politica di paesi come la Lituania e la Lettonia rispettivamente attraverso la pittura e la musica di Mikalojus Kostantinas Ciurlonis e la musica del silenzio di Peteris Vask; la bellezza assoluta nei templi e nella fioritura dei giardini di Kyoto, ma anche le contraddizioni storiche e attuali del Giappone; l’importanza di resistere attraverso l’arte e la cultura nei momenti di brutalità della storia, con la vicenda di Satie e della creazione del suo balletto Parade nella Parigi del 1918; gli squarci di luce che si possono aprire anche su vicende autobiografiche attraverso la fotografia di Debussy e della figlia Choucou ad Arcachon o attraverso un paesaggio del 1689 di Meindert Hobbema, Il viale di Middelharnis. Ma molti altri sensi si stratificano e si possono cogliere in ogni storia.

In questo periodo storico così sofferto per i difficili rapporti con la Russia vorrei infine citare lo struggente racconto che chiude il libro: Mia epoca, mia belva. Leningrado, Pietroburgo. Brokken racconta il suo incontro nel 2019 con un intellettuale e critico musicale russo, Iosif Raiskin, che fin da bambino ha seguito e studiato l’opera di Sostakovic. Ci racconta la dissidenza verso il potere totalitario che l’artista esercitò attraverso la musica delle sue sinfonie, il duro condizionamento che nondimeno si esercitò su di lui, ma anche la sua incapacità di lasciare il paese. Anche Iosif Raiskin non è stato capace di lasciare il paese “Forse Iosif giunse proprio attraverso la musica di Sostakovic alla consapevolezza di quanto si venga sostenuti e deformati dall’epoca in cui si vive … Quel destino comune si può riassumere in cinque parole: incapacità di lasciare la Russia”. Destino fatale che si è ripetuto nella vita dei due figli di Raiskin, di cui solo uno, Daniel, è riuscito a fuggire ad Amsterdam dove è diventato un grande direttore d’orchestra, mentre l’altro, Boris, dopo l’illusione di una integrazione a New York, non è riuscito a sopravvivere alla nostalgia del suo paese, che lo ha fatto piombare in una crisi esistenziale a cui non è sopravvissuto.

Jan Brokken, L’anima delle città, Iperborea, 2021


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