Dopo le dichiarazioni di Elisabetta Franchi su donne, maternità e lavoro è nata una campagna sotto gli hashtag #senzagiridiboa e #notinmyname «per scardinare le storture in questo paese».
L’iniziativa è stata lanciata da cinque giornaliste Sara Giudice, Giulia Cerino, Francesca Nava, Valentina Petrini e Micaela Farrocco alla quale si sono unite altre giornaliste, attiviste e scrittrici, mamme e no, per protestare contro le dichiarazioni dell’imprenditrice.
“Combattiamo per produrre un modello alternativo e ci opponiamo alla cultura del lavorare h24. Siamo professioniste non schiave. Questa campagna non è contro la Franchi, ma contro quel modello di donna che lei ha proposto e che noi contrastiamo fortemente” – così Sara Giudice per Art21 a nome di tutte le fondatrici della campagna.
“Abbiamo deciso – si legge nel comunicato – di lanciare una campagna che racchiude in un hashtag i quattro giri di boa citati da Elisabetta Franchi e che segna l’inizio di un percorso molto più lungo per smuovere e scardinare le storture che in questo Paese (inteso come aziende, società civile, politica) si presentano costantemente quando si parla di donne e lavoro.
Quante di noi hanno aspettato prima di avere un figlio perché ‘magari potrebbero licenziarmi o, peggio, sostituirmi con qualcun altro’? Quante hanno pensato che proprio quel figlio, che tanto avevano desiderato, in realtà potesse rappresentare un ‘limite’ alla propria carriera? Quante, ancora, hanno sacrificato parte della loro vita privata e familiare per ‘non deludere le aspettative’ di capi e cape che chiedono di essere performanti h24, con il sotto testo costante ‘se non ci sei tu ne troverò altri cento disposti a regalarmi la loro vita pur di conservare un posto di lavoro’? Tante, troppe. Tanti, troppi.
Con questa campagna abbiamo deciso di non restare in silenzio, di prendere posizione contro chi sostiene pubblicamente e implicitamente che sia più importante l’età anagrafica delle competenze, contro un sistema che spinge a scegliere i lavoratori sulla base del genere e non delle capacità, contro un sistema che teme la maternità (e la genitorialità) senza rivendicare invece un fatto in cui noi fortemente crediamo: un figlio aggiunge e non toglie, mai. O almeno non dovrebbe anche se spesso invece accade.
E accade perché viviamo in un Paese che non offre la possibilità di vivere la maternità (la paternità e la genitorialità) in modo sereno, con il sostegno dovuto e voluto. Una società in cui un padre che fa il padre è un ‘mammo’. Una società nella quale un uomo ‘aiuta’ in casa, come se stesse facendo un favore alle donne e non prima di tutto a se stesso. Una società in cui ti permetti di fare un figlio solo se hai i nonni che ti aiutano o i soldi per pagare le babysitter (e i babysitter) perché non esistono gli asili aziendali e le misure di sostegno al reddito per le famiglie in Italia – nonostante alcuni miglioramenti – lasciano ancora a desiderare.
Crediamo fortemente che un figlio oggi – per chi lo vuole e lo cerca – non sia un fatto privato ma una scelta rivoluzionaria perché procreare è diventata una sfida complicata (sia idealmente che biologicamente). Un figlio per noi è una conquista, una conquista che va rivendicata dall’intera comunità.
Il nostro però non è un coro composto solo da madri. È al contrario un grido trasversale che comprende donne con storie diverse e che non si ferma solo al difficile bilanciamento tra lavoro e figli.
Le affermazioni della Franchi fanno male a tutte e a tutti. Anche alle -anta single e senza figli che, secondo l’imprenditrice, sono da assumere solo perché non hanno procreato. Si dà per scontato che, non avendo prole, queste lavoratrici non abbiano altro nella vita per cui uscire dall’ufficio, che non abbiano una vita degna di essere vissuta al di fuori del loro impiego. In più non si considera che oggi il problema è semmai quello opposto: per fare figli si aspettano proprio gli –anta di cui parla la Franchi. Perché negli –enta si sgobba e si fa la gavetta.
Da lavoratrici e da esseri umani, rivendichiamo oggi il diritto al tempo libero. Il diritto di non lavorare e dare la propria disponibilità h24 in nome del presunto successo professionale. Rivendichiamo il diritto di godere del nostro tempo senza essere accusate di poca serietà. Stanche di una narrazione univoca, stanche di sentirci giudicate da un sistema valoriale per cui si è professioniste migliori se si decide di sacrificare tutto in nome della carriera, oggi abbiamo deciso di dirlo con forza: la maternità c’entra poco, il problema è culturale. E anche se vi sentite assolti, siamo tutti lo stesso coinvolti”.
Alla campagna hanno piano piano aderito numerose altre giornaliste, scrittrici, opinioniste, attiviste. Professioniste, lavoratrici insomma. Con e senza figli: Gaia Tortora, Chiara Gamberale, Jasmine Cristallo, Francesca Barra, Cecilia Carpio, Martina Caironi, Francesca Biagiotti, Nuria Biuzzi, Valentina Parasecolo, Chiara Proietti, Carolina Orlandi, Ludovica Ciriello, Chiara Piotto, Valeria Brigida, Giulia Presutti, Alessandra Buccini, Linda Giannattasio, Ambra Orengo, Marina de Ghantuz Cubbe, Chiara Billitteri, Laura Melissari, Caterina Di Nucci, Flaminia Sacerdote, Alessandra Teichner, Mela Ferrentino, Giulia Dedionigi, Arianna Catania, Margherita Martelli, Giulia Ferrari, Carlotta Andracchio, Nina Palmieti, Myrta Merlino, Alice Martinelli, Carlotta Corradi e tante altre.
(NB: gli uomini che hanno aderito per ora si contano sulla punta delle dita, tra loro c’è Claudio Santamaria).