BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Genova 2001: un mondo o un altro 

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Ora che l’ultimo capitolo processuale è stato scritto, con il respingimento, da parte della corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), del ricorso presentato da alcuni dei responsabili dell’irruzione alla scuola Diaz per la presunta violazione dell’articolo 6 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo (“diritto dell’imputato di interrogare o far interrogare i testimoni a carico” e quello ad un “equo processo”), si apre una pagina nuova. Quella carneficina pose fine nel sangue a un movimento di ribelli e sognatori, ma adesso è arrivato il momento di guardare avanti. Dove guardare avanti non significa minimamente dimenticare o riporre nel cassetto quella tragedia, anzi. Mi è stato chiesto più volte se ne valga ancora la pena, se sia ancora il caso di riflettere e confrontarsi su una vicenda accaduta oltre vent’anni fa e la mia risposta è sempre stata sì. Sì, perché Genova non è stata solo una storia di sangue e di orrore, prima per le strade, poi a Forte San Giuliano, poi alla Diaz e infine nella caserma di Bolzaneto, ma anche una straordinaria riflessione collettiva sull’essere umano e sul mondo, da preservare e tramandare alle nuove generazioni, non fosse altro che per l’attualità di molte delle analisi di allora.

Genova è stata un punto di svolta, una passione comune, una speranza, un’impresa corale e anche, purtroppo, una drammatica sconfitta. Perché a Genova è andata in scena una Resistenza che ha perso, i cui protagonisti non sono scesi festanti dai monti a colpi di fucile ma con i volti tumefatti da una scuola trasformata in mattatoio o con l’animo straziato da una caserma divenuta un lager. Eppure in quella sconfitta, che ci portiamo dietro da due decenni, sono contenute tutte le domande alle quali non abbiamoo trovato risposta, il nostro intimo desiderio di cercare ancora. La richiesta di un mondo migliore, di una società più giusta e a misura di ciascuno e ciascuna, nella quale nessuno venga lasciato indietro e in cui la questione climatica e ambientale assuma un ruolo preminente erano i capisaldi dei tendoni del Carlini, dei dibattiti preparatori, dei documenti e delle discussioni di quella moltitudine accorsa da ogni parte d’Italia, d’Europa e del mondo per manifestare non tanto contro otto sedicenti grandi, rivelatisi in realtà piccolissimi (basti pensare che uno di essi era Putin), ma per un’altra idea di umanità e di futuro. Tutto ciò cui abbiamo assistito in questi vent’anni, dalle guerre alle crisi economiche, passando in parte anche per la pandemia, che forse sarebbe potuta essere una tragedia ma non una strage, se solo si fossero adottati modelli economici e di sviluppo meno disumani, fino alla guerra in Ucraina che sta mettendo a repentaglio la tenuta stessa del Vecchio Continente, era stato predetto nel biennio che prese avvio a Seattle e si concluse in Italia come peggio non si sarebbe potuto.
In quel luglio del 2001, a Genova, si decise, infatti, di seguire la via di un mondo per pochi, escludendo le masse e abbandonando a se stesso chi non ce l’avrebbe mai potuta fare in un contesto sempre più disuguale. Non a caso, tutti i movimenti di protesta che sono sorti da allora, sulle due sponde dell’Atlantico, ma persino in Nord Africa, hanno avuto al centro della propria elaborazione teorica l’idea una battaglia campale del basso contro l’alto, del 99 per cento della popolazione contro l’1 per cento dei super-ricchi, di chi non ha quasi nulla contro chi possiede praticamente tutto. Non a caso, abbiamo assistito alla progressiva trasformazione della sinistra in qualcosa che con la sua storia e con la sua stessa ragione di esistere non ha niente a che spartire, fino a rendersi irriconoscibile e, agli occhi di molti, anche invitabile. Non a caso, la divisione del voto è ormai geografica, con i centri storici e le zone borghesi che si affidano a un establishment pachidermico e per nulla intenzionato ad aprire anche solo una minima riflessione sulle prospettive della comunità nel suo insieme e le periferie e le aree del disagio che si affidano a quello che sarebbe troppo comodo definire “populismo”, trattandosi in realtà del desiderio di giustizia, uguaglianza e diritti dei dannati di una globalizzazione sbagliata, disumana e priva di regole adeguate.

A Genova chiunque abbia osato dire no a una visione del mondo già allora antiquata e oggi foriera di morte e distruzione in gran parte del pianeta ha subito una repressione senza precedenti, di cui la Diaz costituisce la punta dell’iceberg e Bolzaneto l’indicibile vergogna, di cui si parla troppo poco perché potrebbe ripetersi, trattandosi di una modalità di annientamento che non mira tanto al corpo quanto al cuore e allo spirito di tutte e tutti coloro che non accettano lo stato delle cose.
Si discute molto su cosa sia stata la Resistenza, se si sia trattato solo di armi e sabotaggi contro il tedesco oppressore e il fascismo al capolinea che scelse di essere complice della barbarie fino all’ultimo brandello di vergogna o ci sia stato dell’altro. Sappiamo bene che è stato ben di più. È Resistenza ogni volta che qualcuno si oppone all’indecenza e alla crudeltà gratuita e, per quanto da queste parti si sia sempre condannata ogni forma di violenza, comprese quelle commesse da una parte dei manifestanti, non c’è dubbio che si debba tracciare una netta distinzione fra chi ha aggredito con ferocia e in maniera indiscriminata e chi ha scelto di non subire passivamente, come del resto ha stabilito anche uno dei processi, parlando di legittima difesa.
Genova era e resta un’altra idea di umanità e di destino: l’idea che nulla sia ineluttabile, che valga sempre e comunque la pena di lottare per i propri ideali, che chiedere un altro mondo e non arrendersi alla tirannia di chi nega la liceità di ogni alternativa sia quasi un imperativo morale e che quella generazione, nelle sue componenti migliori straziata in quell’estate maledetta, abbia svolto e continui a svolgere una funzione partigiana.
Ora che non se ne parlerà più in nessun tribunale, chi c’era, chi ha svolto un ruolo in questi due decenni e chi vi si è avvicinato col passare del tempo ha il dovere di prendere per mano i più giovani e le generazioni che verranno, perché è dalla comprensione storica che nasce la costruzione del presente e l’immaginazione del domani. E la comunità che, nel bene e nel male, si è creata intorno a questa catastrofe, che è andata ben oltre la città di Genova, ha il dovere di ritrovarsi, di decidere di vedersi almeno una volta l’anno, di guardarsi negli occhi e di promettersi che continuerà a camminare fianco a fianco.
Quanto a me, il venire a contatto con questa storia enorme mi ha cambiato la vita. Ho trovato almeno alcune delle risposte che ho cercato invano per tanti anni, ho incontrato persone straordinarie e ho vissuto un’esperienza che non esito a definire, a mia volta, partigiana, in quanto ho scelto una parte, ho scelto di non restare indifferente, ho scelto quale idea di mondo abbracciare, con chi schierarmi e, soprattutto, di schierarmi per e mai contro, perché con l’odio non si costruisce niente e si distrugge tutto, e questo me l’hanno insegnato proprio persone che avrebbero diritto di detestare l’universo e, invece, sono ricche di bontà e di amore per il prossimo. Ho toccato con mano, a Genova, la forza del diritto e la bellezza di magistrate e magistrati che hanno applicato alla lettera la Costituzione. E ho deciso che questa vicenda debba diventare una parte essenziale della mia vita: innanzitutto, perché, come detto, è più attuale oggi di ieri e poi perché avverto il dovere di restituire, sotto forma di impegno civile, tutte le emozioni che mi ha regalato. Affinché il dolore di chi ha patito sulla propria pelle sofferenze indicibili non sia stato vano.

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