Inquietanti scenari post pandemici nell’ “Inedito Scaldati” al Biondo di Palermo

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A nove anni dalla morte di Franco Scaldati nella scena teatrale palermitana compare uno spettacolo frutto di impegno, sperimentazione e audacia: “Inedito Scaldati”. In prima nazionale, dal 23 marzo al 3 aprile al Teatro Biondo, nella Sala Strehler: prestigioso salone dedicato in origine agli incontri del “dopo teatro”, dal 1997 sede di laboratori di recitazione e con i suoi cento posti a sedere luogo di interessante programmazione annuale parallela al cartellone dello Stabile.

Si torna dunque a parlare del drammaturgo, dell’autore, dell’attore Franco Scaldati, il “sarto della parola”, il poeta che ha saputo narrare le viscere e le beltà del capoluogo siciliano, colui che ha amato scrivere e recitare in dialetto palermitano, quello del quartiere Albergheria dove tanto ha lavorato. I personaggi delle sue opere sono vari e diversificati; indimenticabili gli animali umanizzati e le persone al margine a cui, rompendo così qualsiasi logica verticistica, dava pari dignità e parola. Scaldati, l’uomo, il poeta che, con le sue parole correva tra le balate ancora sporche dopo le ore del mercato, per poi volare su, tra le malridotte grondaie dei palazzi dove poca acqua stagnante rifletteva il cielo e la luce di Palermo, per raccontare e far riflettere sulla quotidianità, la società le persone.

All’inizio dello spettacolo il palco quasi vuoto è occupato da una poltrona, illuminata da una luce spot che lascia il resto della scena in una scura penombra, dove una persona di spalle sta rannicchiata per terra, una corda regge una corona sospesa, mentre in secondo piano balugina uno spicchio di luna.

Il silenzio iniziale è rotto dall’incedere di un uomo, l’attore è lo straordinario Melino Imparato, il braccio destro di Scaldati, colui che dal 2013 promuove e dirige la compagnia. Lo spettatore è istantaneamente proiettato dentro un appartamento di un palazzo, di una periferia qualsiasi. Fuori sembra esserci la guerra, o una situazione di pericolo estremo, lo si capisce dalle prime battute proferite dall’unico uomo in scena: “Finiu a pandemia?”. Segue un monologo. Il personaggio è un poeta, senza giri di parole ci mette di fronte agli attuali “tempi oscuri”; la sua arte antica, il suo strumento, la parola, che prima riusciva a guarire regine, prostitute, ma anche babbaluci (lumache in dialetto siciliano) e scarafaggi, oggi non ha più valore. Continua dichiarando: “Sembra che un’enorme gomma grande come il mondo stia cancellando tutto: il sole, le stelle, la città, le relazioni. Quanta cattiva poesia si fa in questa città”. Dopo queste affermazioni così crude che certamente avrebbe condiviso Scaldati, data la sua vena poetica sfrontata, urticante, semplice ma diretta, il nostro poeta sembra imitare il suono di una sveglia: vuole svegliare il pubblico, vuole che la poesia torni ad essere motore. Sul palco accanto al poeta che brama la luna, come unico luogo dove poter trovare la pace  allontanandosi da questa realtà terrena dove “male e bene appaiono cosa unica, dove inizia la perdizione e “il buio non è mai stato così buio”, ecco apparire altri tre abitanti del condominio fantasma.

Paride Ciciriello interpreta un ragazzo diversamente abile chiamato “il muto”, personaggio che in realtà parla oltre la parola. Il muto avanza arrotolato in una corda spessa che sembra rappresentare i suoi pensieri attorcigliati e la sua condizione fisica. Fin dalle prime battute canticchia accennando le note di “Se bruciasse la città” di Massimo Ranieri, e ripete ossessivamente l’unica sua importante preoccupazione: il dover andare a comprare il pane entro le otto di sera. Compito che deve eseguire in modo da far contenta la madre, così da non “buscare legnate”, e non finire in ospedale, dove non può vedere il TG4 che tanto gli piace. Oriana Marcucci, interpreta invece la lavascale ossessionata dallo sporco “che non va via”, lasciato dagli abitanti del palazzo che generalmente la ignorano. Infine Daniele Savarino è un topo umanizzato del palazzo, impegnato a orchestrare le scene della rappresentazione, una figura che vive nell’ombra ma che nello stesso tempo ha molto da dire.

Dentro questo spettacolo però nulla è come sembra, morte e vita convivono, sembrano danzare a braccetto, come la realtà e la finzione che non paiono distinte, come in un gioco di inseguimento degli opposti. Solo un unico attore, come un mastro puparo, ha il potere di trasformare gli abitanti del palazzo nei personaggi del “suo” Macbeth, anche solo appoggiando la corona, non più sospesa grazie all’intervento del topo, sulla testa del Muto, che diviene così il sanguinario re di Scozia; mentre l’ignorata lavascale diviene l’attraente, crudele Lady Macbeth. Lo spettacolo sembra seguire i ritmi di una canzone o di una danza, si alternano infatti le considerazioni del poeta demiurgo e i racconti degli abitanti del palazzo, alle frasi solenni del dramma shakespiriano, fino a quando ecco il topo che prende la parola affermando non solo la sua esistenza e che vuole essere altro da questa misera umanità che riempie il quotidiano, ma esplodendo in una cupa, raccapricciante profezia “…quando scoppierà la bomba atomica gli unici che sopravvivranno saranno gli scarafaggi e i topi”.

“Inedito Scaldati” è il risultato di un percorso di ricerca sulla poetica dell’autore, intrapreso dalla regista Livia Gionfrida, da anni impegnata in progetti di ricerca teatrale, in cui indaga i diversi linguaggi e le persone che vivono in situazioni liminari: detenuti, donne vittime di violenza e anziani. Regista ma anche attrice fin dagli albori della sua carriera ha sempre definito il teatro come un “agire politico”, come una fiammella che accende possibili riflessioni sulla contemporaneità. Anche in questo ultimo spettacolo, non poteva agire diversamente; con impegno e dedizione ha letto, studiato, individuato tra le mirabili testimonianze le tracce shakespeariane che impregnano sovente le opere di Scaldati. In particolare, ha cercato tutti i riferimenti che facessero eco al Macbeth, in opere edite e inedite scritte dall’autore. La sua scelta oggi ricade su quest’opera perché nell’intera rappresentazione si è voluto sottolineare “questo tempo buio così buio”, così come lo è nella nota tragedia di Shakespeare incentrata sulla figura di Macbeth e la sua ascesa al trono di Scozia, che sottolinea la fame di potere dell’uomo, l’ambizione che diviene pulsione distruttrice e crudele che opera cieca sopra tutto e tutti.

Anche i giovani attori presenti sono parte del processo di sperimentazione teatrale in quanto scelti dopo alcune giornate laboratoriali tenutesi al Teatro Montevergini al fine di selezionare giovani leve idonee a rappresentare i personaggi dello spettacolo. La Giofrida ha costruito uno spettacolo che squarcia la quotidianità appiattita e silente e ci “impone” il pensiero per un cambio di marcia.

Quando lo spettacolo volge al termine un messaggio importante viene lasciato nelle menti degli spettatori: “…se i poeti si addormentano si ferma il mondo e il mondo non si può fermare”. Come lo stesso Scaldati scriveva: “Squadre di assassini braccano i poeti…” a noi il compito di salvarli.

Inedito Scaldati

prima assoluta

testi di Franco Scaldati
drammaturgia e regia Livia Gionfrida

con Melino Imparato, Paride Cicirello, Oriana Martucci, Daniele Savarino

scene e costumi Emanuela Dall’Aglio

consulenza per il suono Serena Ganci
assistente alla regia Giulia Aiazzi
produzione Teatro Biondo Palermo

in collaborazione con Teatro Metropopolare

Inquietanti scenari post pandemici nell’ “Inedito Scaldati” al Biondo di Palermo


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