Ilaria Alpi non è stata una brava giornalista?

0 0

L’appuntamento di questo mese della rubrica “Dalla parte di Lei” è dedicato a Ilaria Alpi. È curato da Monica Andolfatto che ne tratteggia la personalità lo stile: un contributo per conoscere chi era Ilaria, la donna, la giornalista. Tutti, infatti, la conoscono come vittima di quell’agguato in cui, insieme a Miran Hrovatin, fu assassinata a Mogadiscio 28 anni fa. Di lei non si conosce ancora tutto perché era una donna a tutto tondo, una donna giornalista: difficile distinguere la donna e la giornalista. Ho provato a entrare nel mondo di Ilaria in tutti questi anni: con la volontà di cercare nei suoi lavori una traccia per capire la sua morte, innanzitutto; con la consapevolezza che quel che rimane dei suoi appunti sia solo una minima parte di quanto è stato purtroppo trafugato, eliminato, occultato; con la curiosità di capire più a fondo il suo lavoro fino a quel momento, per ripercorrere il filo delle sue indagini; con la simpatia che si prova per una giovane donna appassionata di un lavoro difficile, di un mondo lontano; con la stima e l’affetto per Giorgio e Luciana, indomabili, grazie ai quali, ai loro racconti ho capito molte cose di Ilaria ma non tutto. 

Ho letto tutti i suoi appunti dei sei viaggi precedenti, del settimo, fatale, le poche note ritrovate. Dei video mi ha colpito, oltre all’intervista al sultano di Bosaso (il frammento che è giunto fino a noi), l’intervista ad Ali Mahdi nel luglio 1993, uno dei signori della guerra. Soprattutto mi sono chiesta perché non andò mai in onda: non ho trovato né avuto una risposta. Nei reportage e negli scritti si rintraccia, con un linguaggio televisivo ma non superficiale, il rigore della notizia e, insieme la tenerezza che dipinge una situazione che si tratti di persone o di luoghi. Ecco un frammento di un suo scritto (luglio o ottobre 1993): “Mogadiscio una città fantasma”: la bella città sul mare non esiste più …la guerra si sa è distruzione e morte …il Maglis, quella che era l’Assemblea di governo, è un triste simbolo della Somalia di oggi. Una furia distruttiva lo ha fatto a pezzi …I grandi murales colorati sono rimasti lì, con le loro figure in uno strano stile, ibrido tra realismo sovietico e naif africano …”

MGG

«Una che si fa ammazzare non è una brava giornalista». Questa frase mi è stata detta ventitré anni fa. Da un collega. E non riesco a dimenticarla. Commento non richiesto a un incontro organizzato nella sede del Sindacato giornalisti Veneto, a Palazzo Turlona a Venezia a cinque anni dall’omicidio di Ilaria Alpi, trucidata a Mogadiscio insieme all’operatore, sempre della Rai, Miran Hrovatin il 20 marzo del 1994. La mia reazione fu istintiva, secca, rabbiosa: «Allora pure i magistrati e i giudici uccisi non hanno nulla» replicai troncando un dialogo sgradevole che non avevo cercato. Fu in quella occasione che conobbi Mariangela Gritta Grainer e Maurizio Torrealta: avevano da poco pubblicato, insieme a Giorgio e Luciana Alpi il libro inchiesta L’esecuzione che vennero a presentare. Di quei giorni ricordo il sospetto e lo scetticismo che ammantavano la vicenda. La voglia di archiviarla, di dimenticarla, di cancellarla. Anche all’interno della comunità cui apparteneva Ilaria Alpi, la nostra, di chi fa giornalismo. Il non detto pesava come un macigno: in fondo se l’era cercata, in fondo che bisogno aveva di tornare in Somalia, in fondo poteva starsene tranquilla in redazione.

Ammettiamolo, tutte e tutti: senza la determinazione e la tenacia dei genitori, la stessa di Mariangela Gritta Grainer sempre al loro fianco che ne ha raccolto il testimone, oggi con ogni probabilità Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sarebbero una sorta di cameo nell’elenco dei cronisti “morti sul lavoro”.  Ma i giornalisti quasi mai muoiono per infortunio. Più spesso per mano armata. Finiti nel mirino di qualche fucile, di qualche lupara, di qualche mitra, dilaniati da qualche bomba. I giornalisti non sono uccisi per caso, non sono uccisi a caso. Diventano un bersaglio. Sono un bersaglio. Specie se cercano la verità. Se non si accontentano delle tante versioni/veline ufficiali.
Specie se tentano di decifrare, di chiarire, di tradurre la complessità del mondo che li circonda. Esercitando il diritto dovere di cronaca. In Somalia, in Afghanistan, in Siria, in Turchia, in Grecia, in Messico, in Libano, in Italia. E in Ucraina.
Il 28.  anniversario dell’assassinio Alpi-Hrovatin purtroppo è caduto nel corso di una guerra che nessuno mai si sarebbe prefigurato e che è scoppiata il 24 febbraio con la deliberata aggressione manu militare della Russia. Finora risultano 8 gli operatori dell’informazione deceduti, senza contare i feriti, quelli presi in ostaggio e torturati.

Non sono stati bravi? Ilaria Alpi non è stata brava? Ci vuole coraggio per andare al fronte. Ancora di più se lo fai da freelance senza una struttura redazionale che, seppur da lontano, ti supporta dal punto di vista documentale e logistico. Ci vuole coraggio per testimoniare in diretta i massacri e le stragi. Ci vuole coraggio per guardare negli occhi le mamme e i bambini in fuga, gli anziani senza più sguardo, i soldati che sanno di guardarti forse per l’ultima volta. Ci vuole preparazione. Ci vuole studio. Ci vuole spirito critico. E consapevolezza del proprio ruolo e della propria responsabilità.
Ilaria Alpi sarebbe là. Cronista di lungo corso, donna matura di quasi 62 anni. Scevra da facile protagonismo o da superficiale improvvisazione. E le sue dirette si distinguerebbero per la profondità di analisi del contesto e soprattutto per l’autentica umanità nel narrare le storie di donne e uomini, di famiglie distrutte, di orfani, di sopravvissuti in una quotidianità stravolta dalla follia bellica. Umanità che non è spiccia compassione, pietismo, indulgenza. E mai e poi mai spettacolarizzazione.
Ma rispetto, denuncia, fratellanza e sorellanza. Sentimenti rari ma che esistono e resistono. «Tra lo scoop di una morte in diretta e la possibilità di darne notizia ma evitando quella morte cosa sceglieresti?».
Di dubbi non ne ho sulla risposta di Ilaria Alpi. Il suo è stato un giornalismo civile, un giornalismo militante, un giornalismo partigiano, espressione quest’ultima presa a prestito da Carlo Verdelli, direttore del settimanale “Oggi” ed ex di “Repubblica”.

Tra i tanti episodi della storia professionale della giornalista Alpi ce ne sono alcuni che testimoniano al meglio il duplice scrupolo di fornire informazioni certe e tempestive, ma senza ferire le persone coinvolte direttamente o indirettamente nei fatti. Quando, ad esempio, ha assistito alla sorta di linciaggio di una giovane somala accusata dai connazionali di essersi prostituita con i militari americani: picchiata, derisa, denudata tra le risate dei soldati. Ilaria Alpi l’ha rivestita, le ha fatto sentire ancora il calore umano di una donna uguale a lei: e ha realizzato il servizio per la Rai senza inquadrare la vittima, ma rendendo appieno la bestialità di quanto accaduto. Rispetto e professionalità.

Anche il 15 settembre 1993: ha appreso per prima che dei cecchini avevano sparato a dei parà italiani che stavano facendo jogging al porto nuovo di Mogadiscio, freddandone due sul colpo. E ha deciso di non darne i nomi in tv, pur conoscendoli: nell’incertezza che i familiari non fossero stati ancora avvertiti, ha preferito fare un passo indietro, pensando ai lori genitori, ai loro cari. Perché chi muore, per volontà di altri o per fatalità, ha sempre qualcuno che lo aspetta a casa o che attende una sua telefonata.
Ilaria Alpi la sua scelta l’ha fatta e l’ha pagata cara: stare dalla parte di chi non ha voce, non ha volto, non ha cittadinanza; stare dalla parte degli sfruttati, degli oppressi, degli ultimi; stare dalla parte della verità.
Verità che come ripete Roberto Reale, giornalista e studioso di comunicazione, è la prima “vittima” del conflitto bellico che trasforma l’informazione in propaganda, falsificandola, manipolandola, calunniandola, ridicolizzandola, imbavagliandola, isolandola, fino ad ammazzarla.

Ilaria Alpi è stata lasciata sola? Me lo sono domandato più volte. Di sicuro dopo il suo assassinio. Calpestando la sua professionalità, insinuando il sospetto e poi in maniera sistematica con un depistaggio di stato. Lo sa bene Mariangela Gritta Grainer che ha denunciato e denuncia i sabotaggi alle indagini, le inchieste deviate, l’immancabile volontà di archiviazione. Invito a rileggere il suo severo e appassionante contributo pubblicato lo scorso 17 marzo 
Ricordo come fosse ieri il momento in cui ho appreso dell’“attentato” guardando la tv. Avevo sentito parlare di lei e avevo visto i servizi dalla Somalia. Per me esisteva solo il Tg3, rivoluzionato sotto la regia di Sandro Curzi che aveva lasciato la direzione da appena un anno. Ero stata colpita da quella ragazza che aveva studiato sodo per imparare l’arabo e capire senza mediazione la realtà che stava documentando, parlando con le persone, mischiandosi alla gente, condividendone lingua, cultura, usanze. E la ammiravo. L’ammiro.
No, Ilaria Alpi non è un simbolo, non è un’icona, non è un santino. Ilaria Alpi è marchio di un giornalismo indipendente, libero, professionale e serio.
Ringrazio quante e quanti, a partire da Giorgio e Luciana Alpi, che ne hanno coltivato e custodito non il ricordo ma la memoria, insieme a Giuseppe Giulietti e alla composita communitas di Articolo21hanno continuato e continuano senza demordere a rivendicare verità e giustizia, superando ogni sorta di ostacolo. Il loro impegno e il loro attivismo fanno sentire Ilaria Alpi come un’amica, una collega, una sorella, una figlia: una persona che fa parte della vita di ognuno di noi. Dal 20 marzo scorso Ilaria Alpi e Miran Hrovatin ci accolgono, all’ingresso della palazzina del Tg3, al Centro di produzione Rai “Biagio Agnes” di Saxa Rubra a Roma, sulla panchina bianca con impressi i loro nomi, per iniziativa dell’Usigrai della Federazione Nazionale della Stampa e di Articolo21 e di tutta la comunità di #NoiNonArchiviamo.
Ilaria Alpi è stata una brava giornalista.
#NoiNonArchiviamo. Dalla parte di lei.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21