Fin dall’inizio dell’aggressione all’Ucraina il patriarca ortodosso di Bucarest Daniel ha chiamato i fedeli a impegnarsi nell’accoglienza di chi sta scappando dalla guerra. Una simile posizione è stata espressa anche dall’Unione delle chiese cristiane nella vicina Moldavia.
Stando alle loro parole non è cambiato nulla dall’inizio della guerra: “Abbiamo sempre ospitato persone gratis, perché non dovremmo continuare a farlo?”. Ad accogliere chi scappa dall’Ucraina verso la Moldavia non ci sono solo palestre, scuole e strutture messe a disposizione dal governo o da organizzazioni di volontariato, ma anche monasteri religiosi che – come quello storico di Călărășeuca – “puntellano” il confine nord-est del paese lungo il fiume Nistru.
“Aiutiamo chi ce lo chiede con cibo e alloggio, per quanti giorni ha bisogno senza volere nulla in cambio e senza che debba interessarci il motivo”, ci spiega la “sorella” Maria – che tutti chiamano Masha – mentre si appresta a preparare il grande salone per la cena, cercando di troncare il discorso.
Distribuito su circa 150 ettari di terreno e organizzato come una sorta di “corte” autosufficiente – con due chiese, varie camere per gli ospiti, una laghetto interno, una serra per coltivare, allevamenti di maiali e mucche e piccoli laboratori per la produzione di pane e formaggio – Călărășeuca è ora anche meta di profughi e famiglie in fuga (sono oltre un centinaio, ci informano), che arrivano qui principalmente passando le vicine frontiere di Mohyliv-Podil’s’kvj o Ochnita. Data anche la posizione leggermente sopraelevata del monastero, il territorio ucraino sull’altra sponda è ben visibile e verso le otto di sera le sirene del coprifuoco risuonano come se interessassero anche la Moldavia (peraltro entrata ufficialmente in “stato di allerta” dallo scorso 26 febbraio).
Nella lunga stanza centrale, tappezzata di finestre e di dipinti, vengono servite the, zuppe, legumi e piatti a base di pasta. I profughi arrivano alla spicciolata, alcuni si servono in silenzio e senza rivolgere grandi sguardi intorno. Nel frattempo, in sottofondo, le sorelle recitano salmi e letture.
La guerra e gli scismi
Il ruolo della chiesa (anzi, delle chiese) nell’accoglienza di chi fugge dal conflitto in Ucraina potrebbe sembrare da una parte scontato, vista la vocazione solidale e sociale che caratterizza le istituzioni religiose, e dall’altra marginale, visto il numero di altre realtà non confessionali che si sta mobilitando in tal senso in tutti i paesi di frontiera e non solo. Eppure, potrebbe essere più significativo di quanto appare a un primo sguardo, se si pensa che uno degli endorsment più forti alla guerra di Putin è venuto dal patriarca di Mosca Kirill: com’è noto, in una lettera pubblicata sul sito ufficiale della chiesa ortodossa russa agli inizi di marzo, il rappresentante religioso ha descritto il conflitto in corso dandone un’interpretazione di “scontro di civiltà” e giustificandolo indirettamente anche in base a una maggiore tolleranza dell’“occidente” verso l’omosessualità, che secondo lui andrebbe combattuta.
Parole che hanno generato non pochi malumori, sia all’interno dell’ambiente del patriarcato di Mosca sia da parte di altre confessioni (nonostante papa Francesco abbia provato a intraprendere un dialogo con Kirill per costruire la pace): quasi trecento diaconi e preti appartenenti alla chiesa ortodossa hanno infatti firmato in risposta una lettera in cui si condanna invece l’aggressione dell’Ucraina e si chiede un “immediato cessate il fuoco”. Similmente, il segretario generale del Consiglio Mondiale delle Religioni Ian Suaca si è rivolto a Kirill per chiedere che si adoperi con la sua influenza e autorità sul potere putiniano affinché la guerra finisca il prima possibile, mentre è notizia di questi giorni che i preti della parrocchia ortodossa di San Nicola ad Amsterdam hanno smesso di commemorare il leader religioso russo durante le funzioni. Difficile capire quale eco abbia tutto questo presso la popolazione ucraina, presso la quale comunque si contano circa 30 milioni di fedeli ortodossi facenti riferimento anche al patriarcato di Mosca.
Certo è che pure fra Romania e Moldavia si è sviluppata una sorta di “opposizione” da parte delle personalità religiose alle parole di Kirill e, soprattutto, alla guerra scatenata da Putin. Fin dall’inizio dell’invasione, per esempio, il patriarca di Bucarest Daniel ha condannato fermamente le azioni del presidente russo e ha anzi chiamato i fedeli a impegnarsi nell’accoglienza di chi sta scappando dalla guerra. Una simile posizione è stata espressa anche dall’Unione delle chiese cristiane nella vicina Moldavia e chissà che anche questo elemento non stia giocando un ruolo nella diffusa mobilitazione per l’assistenza e il sostegno ai profughi che si sta verificando in questi territori.
L’abitudine alla solidarietà
D’altronde, come ci dice il diacono Florian che fin dall’inizio della guerra si sta impegnando nell’accoglienza sia alla stazione di Suceva (nord-est della Romania, vicino al confine di Siret) che presso la sua parrocchia, “noi ci sentiamo una comunità, non è importante chi siamo o cosa pensiamo individualmente”. I membri della chiesa ortodossa rumena sono spesso, e letteralmente, in “prima fila” per quanto riguarda gli aiuti per chi scappa dall’Ucraina: lungo la frontiera, tanti di loro si offrono infatti come traduttori o per apportare un sostegno informativo.
Più “nelle retrovie”, invece, mettono a disposizione monasteri e chiese e collaborano con gli altri volontari in punti di forte transito come, appunto, le stazione dei treni: a Suceva, la sala d’aspetto è quasi sempre gremita di gente in attesa dei treni che il governo ha messo a disposizione gratuitamente per raggiungere centri più grandi quali Bucarest o Cluj-Napoca. “È semplicemente la nostra vocazione come persone di fede. Chi frequenta la mia parrocchia è davvero toccato dal dolore del popolo ucraino, quasi tutti – dai più giovani ai più anziani – si sono mossi per chiedere che cosa possono fare, come aiutare ed essere solidali”.
In effetti – fra i confini e le frontiere più prossime all’Ucraina, le zone di passaggio intermedie e le stazione ferroviarie e gli snodi maggiori delle capitali – sembra esserci al momento, in Romania e Moldavia, una filiera dell’accoglienza nutrita e composita, che passa da luoghi istituzionali, alloggi informali, case private fino ad arrivare alle chiese e ai monasteri e che offre riparo, cibo, assistenza medica, informazione per i documenti e aiuto linguistico. “Per la nostra gente è qualcosa di spontaneo, una sorta di abitudine”, conclude Florian che, però, non intende commentare le parole di Kirill e l’atteggiamento della chiesa ortodossa russa. “Semplicemente, non ci piace la guerra”, dice. Poi, si lascia sfuggire con un lapsus: “Non ci piace Putin”.
di Francesco Brusa Călărășeuca, Moldavia