Condannati gli aggressori della giornalista Luciana Esposito: è la vittoria del “circo mediatico”

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Credo di essere stata la prima giornalista a beneficiare della “scorta mediatica”, fortemente voluta da Beppe Giulietti, Presidente della Federazione Nazionale della Stampa, eletto poche settimane prima dell’aggressione che ho subito il 21 dicembre del 2015.

Mancavano pochi giorni a Natale e pertanto mi vidi costretta ad allontanarmi da Napoli per sventare il pericolo di restare vittima di un proiettile vagante, in virtù della barbara tradizione che vige da queste parti di festeggiare sparando in cielo.

Durante quell’esilio forzato, la mia vicenda venne intercettata da Claudio Silvestri, segretario del Sindacato Unitario dei Giornalisti della Campania che non ha mai avuto dubbi né esitazioni sul da farsi.

Seppure i miei aggressori, spalleggiati dai referenti territoriali di una nota associazione anticamorra, abbiano fin da subito giustificato quell’atto violento affrancandomi il marchio più infimo per una donna: “voleva una storia con il camorrista che l’ha picchiata”.
E’ solo una delle tante frasi, apparse sui social network, scritte non solo da semplici haters o dai fan della camorra, ma anche da tanti colleghi che fatico a definire “giornalisti”.

La FNSI e il sindacato campano non hanno mai avuto dubbi rispetto al reale movente che ha spinto quella coppia di coniugi a fermare il mio lavoro con metodi brutali ed estremi.

Nel Parco Merola di Ponticelli, il luogo in cui sono stata aggredita e in cui vivono i miei aggressori, ho vissuto una “favola moderna”. Sognavo di colorare il grigio di quella periferia, la mia periferia, con la forza della mia penna. Ho raccontato il degrado di quel luogo e ho acceso un riflettore su un rione abbandonato a sé stesso da oltre 20 anni. Un riflettore che infastidiva Giuseppe Cirella, il ras del Parco Merola che avrebbe voluto beneficiare di un clima più discreto per continuare ad agire indisturbato.

Il punto di non ritorno è stato sancito da uno degli agguati di camorra più eclatanti della storia della camorra della periferia orientale di Napoli: il 10 ottobre del 2015, i sicari del clan De Micco, uccisero la donna-boss Annunziata D’Amico, la cognata di Mariarosaria Amato, moglie di Cirella.

La Amato con orgoglio ed irriverenza mi rivelò quel vincolo di parentela, unitamente ad una serie di informazioni riservate e delle quali solo i familiari della defunta erano a conoscenza. Quando quelle rivelazioni si tramutarono in una notizia pubblicata su Napolitan.it, il mio giornale, diventando di dominio pubblico, tra i ranghi della famiglia D’Amico iniziò “la caccia all’infame”.

Nel corso di questi anni, tutte le volte che sono tornata sulla vicenda ho puntualmente ricevuto sempre lo stesso messaggio in cui mi veniva chiesto di fare il nome “dell’infame” che mi aveva spifferato quelle informazioni.

Quel nome l’ho fatto per la prima volta in tribunale, nel corso del processo contro i miei aggressori: la mia fonte era Mariarosaria Amato, la donna che mi ha aggredito insieme a suo marito e alla loro primogenita.

Una verità emersa in sede processuale, grazie alla solida memoria difensiva redatta dall’avvocato Emilia Granata, che ha ricostruito l’intera vicenda mettendo in fila gli articoli da me pubblicati nel corso del tempo.

Per quanto potesse apparire palese la verità ricostruita attraverso quelle prove e per quanto possa apparire poco credibile che una giornalista principalmente dedita ad occuparsi di criminalità organizzata possa restare affascinata da un pregiudicato pressochè analfabeta, l’esito del verdetto maturato il 24 febbraio del 2022, al termine di un processo lungo 6 anni, era tutt’altro che scontato.

Il Pm ha parlato di “testimoni remissivi”, riferendosi a due amministratori comunali che sono stati colti da una clamorosa amnesia durante la loro deposizione in aula. In una terra martoriata dalla camorra, succede anche questo.

Per ottenere la giustizia che ho fermamente desiderato dal giorno in cui sono stata aggredita, ho dovuto attendere anni lunghi e difficili, in cui le minacce della camorra sempre più spesso si sono alternate ed intrecciate con vere e proprie campagne di delegittimazione.

Insulti, pesanti, pesantissimi, campagne d’odio sui social, ma anche discorsi tenuti in pubblica piazza per invitare la gente comune a prendere le distanze da me e dal mio lavoro. Finanche sacerdoti ed esponenti laici della chiesa spiegavano ai fedeli che “mi avevano picchiato perché ero una poco di buono”.

Lo dico con cognizione di causa: una donna emotivamente più fragile di me, forse, non avrebbe retto il peso di quel linciaggio per così tanto tempo.

Qualcuno lo ha definito “circo mediatico”, perché messo in piedi per consacrare personaggi in cerca di gloria.

Io continuerò a chiamarla “scorta mediatica”, perché ha allontanato dalla mia vita lo spettro dell’isolamento e della paura.

L’unica certezza che ha accompagnato ogni mio singolo passo nel corso di questi anni è stata la vicinanza di colleghi e colleghe che non hanno mai messo in dubbio il mio valore umano e professionale. Una certezza che mi ha accompagnato anche in tribunale, in virtù della costituzione di parte civile del sindacato campano, d’intesa con la FNSI.

1 anno e 2 mesi per Giuseppe Cirella e Mariarosaria Amato.

10 mesi per Carmela Cirella.

Questa la sentenza che sancisce la nostra vittoria.

E’ la vittoria del SUGC, della FNSI, di Giulia Giornaliste e di tutti coloro che hanno scelto di schierarsi dalla parte giusta: contro la camorra, a tutela della libertà d’informazione.

 


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