Il più difficile è comprendere come e quando ha avuto inizio l’agonia dei gruppi dirigenti peruviani, dei quali adesso oscura gli orizzonti. Poiché con ogni evidenza 3 governi nati e morti nei primi sei mesi di presidenza del cappellaio matto, come dalla corrotta e nondimeno radicata opposizione della destra fujimorista chiamano il capo dello stato, Pedro Castillo (insediato nel luglio scorso), rivelano un male che va ben oltre un’incapacità personale o un inceppo istituzionale. E’un paese di antica civiltà e grande cultura anche politica, che nell’interminabile tormento di raggiungere la piena modernità, si scopre una volta ancora estenuato dalle lotte tra opposti interessi interni e un certo grado di marginalizzazione internazionale.
Trentaquattro milioni di abitanti (4/500mila di lontana origine italiana) su un territorio vasto più volte l’Italia tra vertiginose vette andine, la selva amazzonica e l’oceano Pacifico, costituiscono la Repubblica del Perù: Piruw Ripuwlika in quechua e Piruw Suyu in aymara, poiché per la forte presenza di popoli originari si riconosce stato plurinazionale e plurilngue. A governarlo è un sistema unitario ma decentrato, a carattere semipresidenziale (alla francese, diciamo in Europa), con una pletora di partitini che affollano il Congresso contribuendo a logorare il residuo prestigio popolare e con il suo, quello della democrazia parlamentare. La crisi però non è certo di oggi né di ieri. Con periodiche punte di drammaticità talvolta sfociate in tragedie, possiamo fissare l’avvio di quest’ultima fase al 2010.
Immediatamente prima, la dittatura di fatto imposta dal neo-liberista sui generis Alberto Fujimori aveva disfatto tanto il riformismo nazional-popolare del generale golpista Velazco Alvarado (1968-75: riforma agraria, nazionalizzazione del petrolio e dello zucchero); quanto la legalità repubblicana successivamente restaurata dal più volte presidente Fernando Belaunde Terry, un cattolico colto e moderato. C’era stata anche la guerriglia, anzi varie: tutte intossicate dal pregiudizio volontarista (che poi è l’altra faccia dell’ignavia politica). Nata secondo autorevoli testimonianze per opporsi al terrorismo di stato praticato da reparti scelti della marina militare, quella di Sendero Luminoso, divenuta tristemente nota per la ferocia ispirata dal cambogiano Pol Pot. Gli scontri con l’esercito e le successive stragi compiute da entrambe le parti hanno provocato 70mila morti, soprattutto tra contadini inermi.
E’ stato tuttavia il decennio fujimorista ha incistare nelle istituzioni la corruzione totale. Nel corso del quale i servizi segreti diretti dal complice Vladimiro Montesinos sono stati trasformati in un apparato per il contrabbando internazionale di armi e droga, per l’eliminazione fisica degli avversari, per la copertura d’ogni tipo di rapina ai danni dello stato e di singoli imprenditori e proprietari. La sistematicità con cui per così lungo tempo sono state portate avanti simili pratiche hanno distrutto quanto restava di professionalità e coscienza civica nella pubblica amministrazione. Hanno avvelenato l’intera società peruviana e l’establishment più che mai. Tanto da giungere a preoccupare gli stessi Stati Uniti e c’è voluto il loro discreto intervento affinchè Alberto Fujimori dopo incredibili peripezie internazionali finisse processato e in carcere.
La corruzione non è meno contagiosa del Covid, ne replica anche le varianti e diffondendosi sopisce le coscienze, cancella nei più il senso di colpa. L’avidità si sostituisce subdolamente ogni altro pensiero. Altrimenti non si capirebbe come tutti i presidenti peruviani degli ultimi 20 anni, ben cinque, uno dopo l’altro, siano finiti incriminati, processati e condannati per malversazione. Ad evitare l’umiliazione dell’arresto sono stati il più prestigioso, Alan Garcia, quasi un mito nazionale: nel momento in cui la polizia ha bussato alla porta di casa, si è sparato un colpo di pistola; e Alejandro Toledo, che quando lo accompagnavo nella campagna elettorale mi diceva orgogliosamente che avrebbe riscattato il Perù dall’onta di Fujimori e al dunque per evitare la giustizia del suo paese è corso a rifugiarsi negli Stati Uniti. In questo stato di cose è immaginabile la formazione e selezione affidabile di una nuova classe dirigente?
Sondaggi pubblicati dalla stampa di Lima dicono che dal 2012 all’anno scorso il sostegno ideale dei peruviani alla democrazia è sceso dal 51,8% al 27,6%; il 59% approverebbe un golpe militar capace di arrestare la corruzione. E’ in questo Perù che il semisconosciuto Pedro Castillo è entrato a palazzo Pizarro, per appena un pugno di voti in più della rivale Keiko, la figlia prediletta dell’ex presidente Alberto, anche lei gia’ sotto processo per corruzione. Con la promessa di riformare la Costituzione e nazionalizzare le fonti energetiche. Ma soprattutto garantire la scuola gratuita fino all’università, una rivendicazione storica degli studenti peruviani e delle loro famiglie, che ancora negli ultimi tempi ha riempito di accese proteste strade e piazze delle città. Ma finora non è riuscito a far convivere in un suo governo l’estrema sinistra con quella moderata, i caciques dell’interno con quelli della costa, ideologi e pragmatici. Mentre gli studenti gridano che loro alle scuole private non possono e non vogliono andarci.
(foto Novanews)