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Quella storia di vendette nel carcere di Frosinone che rimanda al mondo dei narcos

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E’ una storia di vendetta, regolamento di conti, protervia e di scarsi controlli quella che il prossimo primo aprile approda davanti al giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Frosinone. Una vicenda che potrebbe appartenere al Messico violento dei cartelli della droga, oppure alla Calabria che non offre tregua. Invece è avvenuta dentro un penitenziario che ne ha viste di ogni colore ma pur sempre una casa circondariale di periferia. Qui la mattina del 16 settembre 2021 un detenuto viene rinchiuso dentro una cella da cinque persone, sequestrato e picchiato; in quel momento l’ala era sguarnita, certamente lo era la cella numero 14 dove è stato rinchiuso Alessio Peluso, definito negli atti della Procura un “esponente di spicco della criminalità organizzata campana”, nel suo ambiente conosciuto come il “ras di Abbasc Miano”, zona nord di Napoli. Quel giorno venne “punito” da cinque persone a loro volta in stato di detenzione nella stessa sezione del carcere, la terza. Peluso è stato picchiato da tre uomini mentre gli altri due del commando interno facevano da palo e tenevano la porta della cella chiusa. E’ rimasta bloccata anche quando sono arrivati gli agenti della penitenziaria, cui è stato in un primo momento impedito l’accesso. Chi ha sequestrato Peluso? E perché? E soprattutto cosa è accaduto prima del sequestro di persona dentro al carcere di Frosinone? Secondo la ricostruzione della Procura è una sorta di regolamento di conti non si sa se legato al “dominio interno” oppure al traffico di droga esterno. Ciò che è certo è che la pubblica accusa ha chiesto il rinvio a giudizio per sequestro di persona pluriaggravato e lesioni a carico di Genny Esposito, 32 anni, di Napoli, figlio di Luigi, boss del clan Licciardi, figura emergente tra i narcos romani, nella piazza di spaccio di San Basilio, legato ad un nome pesantissimo nella Roma della cronaca nera, Michele Senese. C’erano inoltre nello stesso gruppo di aggressori Marco Corona, 35 anni, considerato esponente del clan Lo Russo e Mario Avolio, 55 anni, entrambi di Napoli. Oltre a loro due albanesi, Andrea Kercanaj, detto Sandro, in carcere perché accusato di aver messo in piedi l’organizzazione che gestisce il traffico di droga tra le case popolari del capoluogo ciociaro. E poi Blerim Sulejmani, secondo palo nell’aggressione in cella. La spedizione punitiva in danno di Peluso, però, non finì quella mattina, anzi ebbe un seguito persino più incredibile di quanto già avvenuto. Tre giorni dopo il blitz violento, Alessio Peluso riesce a ricevere una pistola Bernardelli semiautomatica in carcere, che utilizza per sparare all’impazzata contro i suoi aggressori. Cinque colpi, tutti andati a vuoto ma che hanno rappresentato la più grave forma di rappresaglia violenta in un carcere italiano degli ultimi 50 anni, come l’hanno definita i sindacati della polizia penitenziaria. Peluso il 19 settembre si mosse nella sezione di massima sicurezza andando letteralmente in caccia di coloro che lo avevano picchiato, muovendosi tra le celle, armato. Non ha ucciso nessuno ma questa storia ha prodotto due filoni d’indagine, uno sul sequestro di persona chiuso con le richieste di rinvio a giudizio, l’altro ancora in corso perché bisogna capire come è arrivata in carcere l’arma usata da Peluso. Anche su questo profilo si è assistito ad una sequenza che ha dell’incredibile. Secondo la versione fornita nell’immediatezza dei fatti, mentre era in corso una ispezione del Ministero e del Dap dentro al carcere, quell’arma era arrivata a Peluso in modo rocambolesco, attraverso un drone calato all’altezza della cella in cui era rinchiuso. E’ ciò che venne affermato pubblicamente a settembre e restò come versione ufficiale fino a metà novembre 2021, quando l’imprevista confessione di un secondino aggiunse tasselli inquietanti al quadro già assurdo che si era profilato. Puluso e tutti gli altri comprimari intanto erano stati già trasferiti presso altre strutture, con una misura supplementare di sorveglianza a Rebibbia proprio per il ras di Miano. A fine novembre viene fuori un’altra possibile verità sulla pistola consegnata ad Alessio Peluso, con matricola abrasa per occultarne la provenienza: un agente della polizia penitenziaria confessa di essere stato lui a portare l’arma in carcere e di averla messa nelle mani di Peluso. Non avrebbe avuto altra scelta perché gli uomini del boss all’esterno avevano preso in ostaggio il figlio del secondino e minacciavano altri membri della famiglia. Dunque il regolamento di conti doveva andare avanti. In poche ore tra il pomeriggio del 16 settembre e quello del 19 nel quartier generale di Peluso a Miano si sarebbe sparsa la voce che il “ras” era stato picchiato e che bisognava organizzare una vendetta; è stato individuato un secondino in servizio a Frosinone, è stato “rapito” il figlio di questi e gli è stato ordinato di consegnare la pistola perché fosse usata per uccidere cinque persone, o perlomeno ferirle in modo grave e punitivo. Tutto dentro ad un carcere. I soggetti coinvolti in questa storia sono detenuti, tutti, per contestazioni legate al narcotraffico seppure con vario titolo. Quel che resta da capire e che potrebbe emergere nel processo che prenderà il via tra poche settimane è lo spaccato della condizione complessiva di quel carcere. Su cui non è ancora stata resa nota la relazione ispettiva. A fare chiarezza finora hanno contribuito i rappresentanti dei secondini, tra i primi a tratteggiare l’identità criminale di tutti i coinvolti e a diffondere la notizia della confessione dell’agente ricattato per la consegna della pistola. Un punto sul quale però restano molte ombre e altrettanti interrogativi; infatti la Procura non ha mai confermato finora la versione del ricatto al secondino, anzi è stato riferito ai media che circa la “consegna” dell’arma con il drone esisterebbero prove fotografiche del circuito interno, foto nelle quali si vede il drone depositare un pacchetto all’altezza della cella corrispondente alla cella di Peluso.
Per il resto è una notizia oscurata in fretta, finita per poche ore sotto il riflettori e poi passata in secondo piano per colpa del covid o grazie al covid.

 


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