Con il festival di Sanremo la televisione – tecnicamente generalista- divenne generale.
In verità, la kermesse canora prese avvio nel 1951, mentre il tubo catodico esordì con il mitico bianco e nero (la vita è a colori, ma il bianco e nero è più realistico, ci ammoniva Wim Wenders) solo nel 1954 ed arrivò in riviera l’anno successivo. Fu quello dell’esordio di un ancora giovane Mike Bongiorno e della vittoria di Claudio Villa: entrambi destinati a fulminanti carriere. Prima la regina era la radio, ma il salto avvenne con il video, che portò nelle case un rito diventato rapidamente cerimonia mediatica. Ascolti e share sempre alti, in certi casi impressionanti: da 70% del 1987 al 55% del 2020 o al 48% della puntata recente. Dati da ibridare con le diverse piattaforme di diffusione e consumo, ivi compresi i piccoli indiani social.
La rassegna si teneva ancora al salone delle feste del Casinò municipale, approdando infine nel 1977 al teatro Ariston. Dove è rimasto, pur tra infiniti travestimenti scenografici. Un teatro trasformato in uno studio pensato per la gratificazione sia della platea presente in carne e ossa sia per le audience casalinghe.
Proprio la televisione, cresciuta via via nelle tecniche, ha costruito un doppio contesto sempre ricco di luci, di scalinate degne della Osiris, nonché di tagli registici di elevata soglia qualitativa.
Insomma, Sanremo è una sequenza di serate (cinque) con canzoni ed orchestre e – insieme- un evento televisivo. Senza dimenticare le dieci ore previste da radio due della Rai.
Non per caso nel 1998, allorché dall’Europa arrivò la richiesta ai governi di stilare un elenco di programmi che non sarebbe stato lecito criptare (si era all’alba della pay tv), da parte italiana si stilò una lista comprendente anche il festival, oltre ai mondiali di calcio o alle fasi finali di altri rilevanti tornei. Era la consacrazione dell’appuntamento al rango di nazionale-popolare (Gramsci ci perdoni). Che nulla ha a che vedere con il populismo, figlio degenere della cultura di massa.
Ecco perché approfondire il discorso è utile per cogliere tracce e sintomi utili a capire ciò che si agita nei sentimenti profondi della società. Si tratta di quei frammenti che emergono dal pentolone dei desideri espressi o inespressi di una società delusa che gradisce di essere un po’ manipolata, con il sorriso e la gentilezza. Ormai algoritmi ed intelligenza artificiale aiutano e guidano i creativi. Nascono i fenomeni da laboratorio, non in assenza di talento, ovviamente. Un esempio di scuola, con rispetto, è proprio quello del gruppo dei Maneskin ospiti d’onore all’apertura dopo aver vinto l’edizione passata e persino l’Eurovision Song Contest. E potremmo stilare un ampio elenco, da Achille Lauro in poi. Sulla costruzione dei miti esiste una vasta letteratura.
Che sarebbe Sanremo, dunque, senza la televisione, con la lunghissima prima serata sull’ammiraglia del servizio pubblico? Ora in sinergia con i social, luoghi post-mediatici tutt’altro che ingenui o innocenti, grazie all’entrata in scena prepotente degli influencer con i loro seguiti che i partiti ormai si sognano. Non è una leggenda il ruolo determinante avuto da Chiara Ferragni l’anno passato nella risalita in classifica di Fedez. Niente di male, intendiamoci, ma ragioniamoci su per dirla con Crozza, che sperimentò sulla sua pelle come il pubblico di Sanremo voglia vivere in una beata bolla senza troppo interferenze. In un’altra circostanza le stesse persone avrebbero applaudito il bravo artista genovese, ma Sanremo non si tocca. Salvo eccezioni, come fu la volta (nel 1984) che Pippo Baudo accolse sul palco gli operai in lotta dell’Italsider di Genova. O quando (nel 1980) si esibì con il famoso Woytjlaccio Roberto Benigni, o Favino si espresse sui migranti nella stagione 2019 condotta con Claudio Baglioni. Rimangono occasioni, però. Da Mike Bongiorno in avanti, fino ad Amadeus, l’estetica sanremese ammette piccoli passi nel corpo a corpo con il senso comune, trasgredisce le regole antiche e le farisaiche censure della sessualità, ma entro i confini cauti della mediana piccolo-borghese dominante. Qualcosa si muove, se è vero che sale alla ribalta della settimana festaiola la trasgressiva Drusilla Foer, insieme alla riserva del divismo sicuro di Ornella Muti e di Sabrina Ferilli, e con le più giovani Lorena Cesarini e Maria Chiara Giannetta. Attese le magie di Fiorello, accolto come un capo di stato.
Risulta difficile immaginare la gara senza contestualizzarla nel filo che congiunge case discografiche, onnipresenti agenti, sfruttamento commerciale nelle radio e nella rete. Com’è noto, il disco delle varie stagioni, dal vinile ai CD, da solo non basta.
Così si capisce meglio il valore della manifestazione: passaggio essenziale nella catena del valore nell’attuale industria culturale, lontana dalle elaborazioni di Adorno e Horkheimer.
Senza televisione, con l’indotto che porta la Rai a partire dal corteo di addetti che cominciano a fare capolino già nei mesi precedenti e con le società in appalto che giustamente preoccupano le organizzazioni sindacali interne, il grande gioco precipiterebbe ad una pur corposa e sagra di una blasonata località di provincia.
Un business moltiplicato dalla rappresentazione mediale, vero e proprio affare per l’istituzione comunale, che negli anni ottanta del secolo scorso giocava al rialzo tra i forni in competizione di Rai e Fininvest. La Rai, già in affanno nelle trasmissioni sportive, non può permettersi di perdere le uova d’oro pubblicitarie di Sanremo.
Se il festival veste persino abiti simbolici, vale la pena di riprendere una proposta che elaborò il compianto Gianni Borgna, autore di un prezioso testo al riguardo.
In sintesi, qual è la cosiddetta governance? Non è il caso di immaginare qualcosa che assomigli agli assetti di omologhe manifestazioni? Mutatis mutandis, come la Mostra del cinema della Biennale di Venezia. Successo sì, ma trasparenza.