Mi vergogno: come giornalista e, prim’ancora, come cittadino. Mi vergogno al cospetto di questa sfilata di “amine morte”, per citare Gogol’, che si è recata in processione da Mattarella a chiedergli un secondo mandato, evidentemente incosciente della gravità dei propri misfatti, inconsapevole della barbarie che hanno compiuto, incapace di un minimo di autocritica e inetta al punto che di sicuro ne applaudiranno il discorso d’insediamento, presumibilmente durissimo.
Mi vergogno al cospetto di una politica che è andata in default, di un Parlamento ridotto all’autogestione, di leader e leaderini che non sono mai stati tali, osannati dalle televisioni per un punto di share in più ed esaltati oltremodo fino a convincerli di avere in mano pallino del gioco, quando in realtà non sono in grado di tenere insieme nemmeno la propria comunità.
Mi vergogno di questi schieramenti inesistenti, di una destra e di una sinistra senz’anima e senza idee, di un centro composto da personaggi che vengono dal passato, polverosi nelle loro giacche e nei loro volti tutti uguali, simili ai dorotei degli anni Sessanta ma privi della benché minima tensione etica e anche del livello culturale che caratterizzava quella pur discutibile classe dirigente.
Mi vergogno e non è anti-politica. L’anti-politica l’abbiamo vista all’opera in questi giorni nei palazzi del non potere, mentre nel cosiddetto “Paese reale” ragazze e ragazzi venivano presi a manganellate solo perché si opponevano a una pessima legge come l’alternanza scuola-lavoro, varata dal governo di quel Renzi che vorrebbe sempre recitare il ruolo del protagonista ma, per fortuna, non ha più i numeri per decidere alcunché.
Mi vergogno perché non è rimasto nulla, se non una sfilata di anime morte che adesso saranno ben contente di essersi salvate dal possibile scioglimento delle Camere, con conseguente addio alla pensione e a qualche altra mensilità di stipendio, ma non si pongono minimamente il problema di cosa accadrà domani. Neanche quel domani distasse più di dieci-dodici mesi, quando saremo chiamati a votare non si sa per chi, non si sa con quale legge elettorale, non si sa per fare cosa e per giunta con la prospettiva di un Parlamento tagliato in nome dei costi, dunque umiliato, vilipeso, straziato da una controriforma approvata, anche da chi inizialmente l’aveva bocciata con motivazioni inoppugnabili, solo per tenere in piedi un accordo di governo che non si è mai trasformato in accordo politico, limitandosi a una mera gestione del potere che ha avuto, per assurdo, e sia detto con le dovute cautele, la “fortuna” di imbattersi nella tragedia del Covid. Quel disastro epocale, quanto meno, ha posto in evidenza le qualità umane del presidente Conte e di una classe dirigente che per qualche mese ha dato buona prova di sé. Il resto è storia nota. Rancori, odi, vendette trasversali, incomprensioni, battaglie fondate sul nulla, insulti, violenze verbali d’ogni sorta, il dilagare di una politica social che ha trasformato persino un momento solenne come l’elezione del Capo dello Stato in una versione parlamentare di un reality show e infine le mani alzate in segno di resa, nell’impossibilità di giungere ad alcun accordo fra personaggi che rappresentano unicamente se stessi e, forse, a loro insaputa: questo è stato.
Mi vergogno per l’incapacità collettiva di comprendere il dramma nel quale siamo immersi. Il vuoto della democrazia davanti ai nostri occhi, la morte in diretta del sistema parlamentare, lo svanire del concetto stesso di rappresentanza, le anime morte, ribadisco, che si danno pure un sacco di arie, capi e capetti che avviano trattative che non hanno alcuna effettiva legittimazione per concludere e fuori da questi schemi fasulli e da questi equilibri di cartapesta una Nazione che osserva incredula questo spettacolo pietoso e vorrebbe fare un falò di tutte queste vanità, nel trionfo del ripudio della politica come concetto stesso, fino, probabilmente, a sostenere, non so più neanche quanto inconsciamente, forme di governo autoritario in nome dell’efficienza.
Mi vergogno e mi sento disarmato. Ho seguito come cronista questa lunga e avvilente vicenda, dopo aver raccontato per quattro mesi la tragedia dei fatti di Genova di vent’anni fa. Ebbene, studiando quel dramma, ho capito da dove nasca il disastro, quale ne sia la fonte, cos’abbia rappresentato quella sospensione della democrazia, cos’abbia rappresentato e cosa rappresenti il silenzio di quella generazione e quanto quell’assenza pesi negli attuali squilibri politici.
Mi vergogno se penso, come detto, che ragazze e ragazzi che continuano a scendere in piazza per manifestare in difesa della scuola pubblica, della sua civiltà e della sua bellezza vengono picchiati mentre va in scena un teatro inverecondo e colmo di ipocrisia e falsità, caratterizzato da un angosciante e crescente distacco dalla vita dei cittadini. Se a questo aggiungiamo che qualche mese fa i fascisti hanno potuto assaltare la sede della CGIL non dico indisturbati ma diciamo non adeguatamente disturbati da chi avrebbe dovuto impedire quell’assalto, arrivo a concludere che è la nostra democrazia a essere messa in discussione.
Mi auguro di cuore che le testimoni e i testimoni di quei giorni maledetti, le insegnanti e gli insegnanti che ancora credono nella propria missione e gli studenti e le studentesse che hanno scelto di non arrendersi sappiano fare fronte comune, che sappiano essere attori politici e civili, seguendo l’esempio del presidente Mattarella, da sempre vicinissimo alle nuove generazioni con le parole e, soprattutto, con i fatti.
Festeggiare la sua rielezione come un fatto positivo, per quanto potesse andare oggettivamente peggio, significa invece non essere per nulla disposti a guardarsi dentro e a comprendere che abbiamo solo rinviato, grazie a un galantuomo, la disfatta cui saremo inesorabilmente condannati se non sapremo restituire alla nostra vita pubblica la dignità che merita.
Iscriviti alla Newsletter di Articolo21