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Patrick Zaki: perché era giusto occuparsene. Perché è giusto continuare a farlo

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Perché vi occupate di Patrick Zaki? Riccardo Noury, Elisa Marincola, Gianluca Costantini e il sottoscritto se lo sono sentito chiedere più volte anche da colleghi sensibili. Le obiezioni erano speculari: chi diceva “con tutti i prigionieri che ci sono nel mondo”, e chi diceva “ma perché non vi occupate dei bisogni della categoria?”. La risposta, in entrambi i casi, era semplice: mica c’è un limite, ci occupiamo di Patrick Zaki E degli altri prigionieri di coscienza E dei problemi dei giornalisti.

Ma non possiamo cavarcela così. Innanzitutto perché la vicenda dello studente imprigionato innocente per quasi due anni è altamente simbolica. Parla dell’Egitto, partner economico e buco nero dei diritti umani; parla di una globalizzazione della conoscenza e dei diritti che viene teorizzata ma boicottata; parla della capacità dei “corpi intermedi” di essere parte attiva in vicende che riguardano le libertà. Scusate se è poco.

Nella primavera del 2020 leggo un trafiletto: anche in Egitto – c’era scritto – sono stati vietati gli aquiloni. Il volo è sinonimo di libertà, di leggerezza. Un regime che ne decreta la fine non può che essere tetro. Ho preso carta e penna per scrivere a Gianluca Costantini, che già aveva sposato per empatia la causa di Zaki; a Riccardo Noury che con Amnesty International ha il mappamondo dei diritti violati sulla scrivania; a Elisa Marincola che rappresenta l’associazione che ha sposato la libertà d’espressione fin dal suo nome. La proposta è semplice: costruiamo un aquilone con l’immagine di Patrick Zaki e lo facciamo volare ovunque. Usciamo dal nostro circolo di giornalisti-attivisti-intellettuali e portiamolo nelle spiagge dove i bambini giocano, nelle piazze delle città dove perfino il passante può notarlo. E così è stato, grazie all’adesione anche di un gruppo fantastico di appassionati di aquiloni, Cervia volante, che l’hanno fatto diventare un loro vessillo.

Abbiamo liberato noi Patrick Zaki? Macchè, non l’abbiamo mai pensato. Festival dei Diritti Umani, Articolo21, Amnesty International e Gianluca Costantini hanno dato voce a chi non l’aveva, hanno parlato proprio perché la Farnesina diceva di stare in silenzio. È assai probabile che il caso di Zaki, uno dei sessantamila prigionieri di coscienza egiziani, si sia momentaneamente risolto (occhio: c’è ancora l’udienza-tagliola del 1° febbraio) per un complesso di ragioni, a volte solo immaginabili. Al-Sisi potrà fregarsene di uno studente in galera, ma quando in ballo ci sono le commesse militari di Leonardo, quando perfino gli viene concesso l’onore di ospitare la prossima Cop-27, qualche piccolo segnale lo doveva pur dare. E tutto sommato – sia detto con il massimo rispetto per i due anni di ingiusta carcerazione – il caso di Patrick è il meno complicato. Infatti Alaa Abd-el Fattah, il Gramsci egiziano, una mente lucidissima e politica, è appena stato condannato a 5 anni, dopo i 7 che ha già passato nelle carceri di Al-Sisi. Per non parlare di Giulio Regeni, con la vergogna insuperabile di aver rimandato il processo ai suoi presunti torturatori e assassini solo perché la comunicazione del Tribunale italiano non è arrivata nelle loro cassette della posta.

Dunque perché ci siamo occupati di Patrick Zaki? Non solo per il suo disarmante sorriso, ma perché fa parte di un ingranaggio di repressione che stritola migliaia e migliaia di persone e che ha bisogno di essere continuamente segnalato. A partire dal prossimo 10 gennaio quando il processo per Giulio Regeni proverà a ripartire. Ci saremo.


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