Se il buongiorno si vede dal mattino, è arduo pensare al 2022 come a un anno di svolta per l’informazione italiana. Non che quello che si è appena concluso sia stato foriero di riforme e di cambi di passo, pure auspicati. Il silenzio del presidente del Consiglio, Mario Draghi, di fronte alle sollecitazioni e alle questioni sollevate dal presidente dell’Ordine, Carlo Bartoli, in occasione della conferenza stampa di fine anno, non lascia presagire nulla di buono. Un’informazione sempre più sotto attacco e indebolita e un mercato del lavoro dominato dalla precarietà non sembrano impensierire il governo e – a giudicare dalla lunga sequela di domande rivolte a Draghi – neanche i giornalisti. Nessuno che abbia sentito la necessità di incalzare il premier – come aveva tentato di fare inutilmente Bartoli nel suo intervento – su cosa lui e l’esecutivo intendano fare per accompagnare il settore dell’informazione nella delicata fase di transizione e per ridare slancio e dignità al lavoro dei giornalisti.
L’impressione è che, con l’approvazione della norma di messa in sicurezza dell’Inpgi, il governo consideri conclusa la partita che riguarda l’informazione. Niente di più sbagliato. La crisi della previdenza di settore, infatti, è soltanto l’effetto più evidente di una grave emergenza sulla quale, fino ad oggi, non ci sono state risposte adeguate da parte delle istituzioni.
Il settore ha bisogno di riforme. Affrontare la transizione al digitale con la legge 416 del 1981 è un’operazione puramente illusoria. La Fnsi ha sollevato da tempo la necessità di mettere a punto una nuova legge per l’editoria che – esattamente come avvenne quarant’anni fa con la legge 416 – preveda nuovi strumenti di rilancio e sostegno del settore, oltre che misure adeguate per affrontare gli stati di crisi e i processi di ristrutturazione delle aziende. Il sindacato dei giornalisti ha elaborato da tempo numerose proposte, consegnate ai vari governi che si sono succeduti nel corso degli ultimi anni. Da quelle proposte si dovrà ripartire, coinvolgendo – in una necessaria fase di ascolto e di condivisione – giuristi, esperti e rappresentanti della categoria.
A caratterizzare l’approccio di governo e parlamento nei confronti dell’informazione è stata finora l’assenza di volontà politica per mettere a punto interventi strutturali. Non si spiegherebbe altrimenti lo stallo in cui in questa legislatura – esattamente come nelle precedenti – sono finiti alcuni disegni di legge, tutti a costo zero per le casse dello Stato. Dalla norme di contrasto alle querele bavaglio alla riforma organica della diffamazione, con l’eliminazione definitiva della pena carceraria, per ora cancellata soltanto parzialmente dalla Consulta, fino alla riforma del servizio pubblico radiotelevisivo si registra una lunga sequela di rinvii e di vorrei ma non posso. Lo stesso discorso vale per la legge professionale – la numero 69 del 1963 – la cui acclarata inadeguatezza ha trasformato l’Ordine dei giornalisti in una sorta di fabbrica di tesserini che inquina il mercato del lavoro, rendendolo incapace di intervenire su questioni cruciali per la dignità e il decoro della professione, come l’accesso e il rispetto delle regole deontologiche.
L’atteggiamento tenuto dal governo negli ultimi anni e reiterato nei mesi della pandemia non è più accettabile. Non è pensabile di continuare a stanziare risorse nella sola direzione del sostegno improduttivo alle imprese, a prescindere dai progetti industriali, dagli investimenti e dal rispetto della dignità del lavoro. Se è vero che il crollo della carta stampata pare ormai irreversibile e che la transizione al digitale va governata, non si può continuare ad assecondare la richiesta delle aziende editoriali di finanziare i prepensionamenti e di impedire l’introduzione di qualsiasi regola che renda il lavoro meno precario e riconosca diritti e retribuzioni dignitose a chi viene quotidianamente sfruttato. Salvo poche eccezioni, le aziende editoriali italiane continuano a rifiutare il confronto sull’innovazione. La pandemia avrà pure reso più difficili le relazioni, ma non è accettabile l’atteggiamento di una controparte datoriale che fugge dai tavoli ogni qualvolta si parla di visione di futuro, di lavoro, di diritti, di dignità delle persone, di equo compenso, di trasformazioni necessarie, fossero pure soltanto lo smart working e le nuove competenze digitali.
Nella legge di stabilità 2022 è stato istituito un fondo straordinario per l’editoria, con uno stanziamento di 230 milioni in due esercizi finanziari. La richiesta che il sindacato dei giornalisti rivolge al governo è di uscire dalla logica perversa dei finanziamenti a pioggia. L’accesso a quelle risorse deve essere riservato a chi darà garanzie non soltanto sul piano degli investimenti, ma anche e soprattutto sul fronte della tutela dei posti di lavoro, della stabilizzazione dei giornalisti precari e della creazione di buona occupazione L’atteggiamento del governo non lascia ben sperare. Toccherà al sindacato e a chi ha a cuore l’informazione, bene primario della democrazia, incalzare l’esecutivo con mirate azioni di lotta.