Giunti alle feste di Natale si rinnova la favola del cinema, e quest’anno con un film che invia bagliori di diamante, tale da mettere in ombra non pochi concorrenti.
Il regalo ce lo riserva Zhang Yimou, raffinato regista di pellicole indimenticabili come Lanterne Rosse, La foresta dei pugnali volanti, La città proibita. Un autore che giunto ai settant’anni sembrerebbe avvertire anche lui, ricalcando Fellini, il desiderio di raccontare la propria passione per il cinema spogliandosi degli orpelli e tornando alle origini. In una regione desertica della Cina, nei primi anni Sessanta agli albori della Rivoluzione Culturale, un prigioniero evade dal campo di lavoro a cui è stato condannato per aver insultato una Guardia Rossa. L’uomo ha saputo che nel centro abitato del circondario stanno per proiettare un film, avvenimento tanto raro quanto spasmodicamente atteso da tutti i poverissimi abitanti del villaggio. Al film, in puro stile ‘realismo socialista’, è abbinato il cinegiornale “Servire il popolo”, enfatica grancassa del regime, nel quale compare la propria figlia: poche inquadrature, appena un secondo, in cui la ragazza sorridendo si carica in spalla un sacco pesantissimo. Per Zhang che non la vede da anni si tratta di un evento imperdibile per il quale rischiare tutto.
Il film di Yimou segue la vicenda delle scatole di pellicola da 300 metri trasportate nelle bisacce di un motociclista solitario, spedito lungo le strade sterrate e interminabili della landa a perdita d’occhio, per approvvigionare la sala cinematografica. Una trama che sembra racchiudere, come in uno scrigno, gran parte dei temi e dei generi più amati dal pubblico, combinati in equilibrio acrobatico tra la comica finale e la crime story.
La narrazione ci tiene in sospeso per 105 minuti, in attesa di assistere, insieme agli spettatori del villaggio, alla tanto sospirata rappresentazione. Dunque siamo di fronte a un esercizio esemplare di cinema nel cinema.
Il pubblico del villaggio, in crisi di astinenza per il troppo tempo trascorso dalla precedente proiezione, si è accampato già da giorni all’esterno del capannone gestito dal proiezionista locale, Signor Cinema, come viene chiamato con rispetto e ammirazione. È lui che crea il prodigio dello spettacolo, e se ne compiace esasperando l’attesa già ben arroventata. Le rotonde scatole di metallo tardano però ad arrivare: una ladruncola manolesta che vive di espedienti essendo orfana e con un fratellino a carico (una monella clochard alla Chaplin), ne ruba una a caso nella taverna in cui sosta il motociclista; ma l’evaso che ha assistito accidentalmente al furto, cerca in ogni modo di recuperare il rullo che, guarda caso, è proprio quello dell’agognato cinegiornale. Tra imprevisti e vicissitudini la pellicola finisce srotolata e aggrovigliata su un carro tirato da buoi, e raggiunge il villaggio a penzoloni, trascinata per chilometri nella polvere.
Riuscirà il burbanzoso proiezionista a renderla di nuovo utilizzabile? E con quali mezzi? Nella ‘cabina’ rimediata dietro il telo bianco improvvisato come schermo, la dotazione di strumenti di cui dispone, antiquata e raccogliticcia, sembra uscita, al pari del vecchio proiettore a carboni, dall’officina dei Fratelli Lumière o dal laboratorio di Méliès.
Il film ci tiene incollati al sedile, ansiosi del lieto fine non meno degli ingenui sudditi del Presidente Mao. E se tutto andrà bene sarà grazie alla partecipazione personale e devota di ogni singolo abitante della piccola comunità, risoluto a qualsiasi sacrificio pur di assistere allo spettacolo tanto desiderato. La pellicola si intitola “Eroic Sons and Daughters” (Eroici figli e figlie), un polpettone celebrativo del regime, retorico e magniloquente, a cui gli spettatori assistono con commossa e totale partecipazione, immergendosi come di fronte a un capolavoro. Magia del cinema.
Nel racconto di Zhang Yimou incontriamo i migliori ingredienti del “cinema cinema”: intanto la pursuit, cioè l’inseguimento, alla base dei film d’azione americani già dal tempo del muto; poi il thrilling, la suspence, il capriccio del destino, la povertà, la giustizia e l’ingiustizia, la fame di vita, un futuro da costruire. E l’amore. Sì, anche l’amore, ambiguo ma palpitante. Alla fine tra il detenuto in fuga Zhang e la spigliata ladruncola Liu fiorirà un sentimento amoroso, forse tra padre e figlia, forse di altra natura, o magari entrambe le cose. Galeotto un fotogramma: uno dei 24 fotogrammi che scorrono in un minuto secondo di pellicola, e che il proiezionista ha estratto proprio per lui. Un minuscolo quadratino di celluloide che ha il valore di una reliquia… Non posso dire di più. Mi sono già sbilanciato troppo, contagiato evidentemente dalla medesima emozione collettiva di quegli spettatori assiepati nel capannone; anch’io come loro con gli occhi fissi allo schermo e il cuore in tempesta.
Direte che sono un inguaribile cinefilo, lo nego, vi assicuro che non è così. Però accanto a Fellini ho imparato una verità fondamentale. Quando gli chiesero di dare una definizione di cinema, rispose:
“Il cinema è sempre la stessa cosa, un clown che si muove davanti all’obiettivo e qualcuno dietro un trabiccolo che gira la manovella”. Ecco, se noi riusciremo a ricondurre il fenomeno cinematografico alla sua elementarità, depurandolo di tutte le scorie di cui lo abbiamo sovraccaricato fin quasi a soffocarlo, ritorneremo assai simili ai fortunati spettatori di quel villaggio sperduto nel deserto; pronti a contemplare la vita attraverso una mirabile illusione: il raggio di una lampada che attraversa un supporto trasparente e ombre di personaggi in movimento che agiscono su uno schermo, ingigantiti da una lente di ingrandimento. Un perfetto altrove in cui gli attori sono dei dell’Olimpo, non a caso chiamati divi nel mondo dello “star system”; divinità fantastiche, sublimi materializzazioni dei nostri desideri.
Risulta più chiaro, ora, perché un film va visto, almeno la prima volta, in una sala cinematografica? Dobbiamo predisporci impazienti a un rito: la luce che si spegne intorno a noi e, nel buio, uno schermo che si accende; come avviene nel sogno quando sotto le palpebre affiora l’incantesimo, il teatrino dell’inconscio. Un miracolo, lo capite bene, difficile da riprodurre su uno piccolo schermo televisivo e, ancor meno, sul display del computer, o dell’iPad, o dello smartphone, in cui i nostri eroi appaiono ridotti a ridicoli nanetti. Cosa avrebbe pensato Ulisse se Polifemo fosse stato alto quanto una pecora?
Grazie a Zhang Yimou ci siamo rincuorati: il cinema non solo non è morto, ma rimarrà in buona salute finché saremo in grado di vedere un film come One second; che non è soltanto la serenata struggente di un autore alla Decima Musa, ma la garanzia che l’arte dello schermo, a dispetto dei profeti di sventura, è viva e vegeta, ben lungi da esalare l’anima. Qualcuno, sull’onda della commozione, ha tirato in ballo Ladri di Biciclette di De Sica: perché no, il paragone non regge ma l’associazione è calzante; ci rammenta che la poesia è universale e l’arte, quando è poesia, non scomparirà mai, essendo l’espressione della scintilla più preziosa che ospitiamo dentro di noi, la componente divina immutabile nei secoli e nei millenni. Eterna.
Una statua di Fidia o di Prassitele, scolpita tremila anni fa, ci fa tremare di gioia, al pari di un graffito nella caverna paleolitica, o di un dipinto di Raffaello, di un affresco di Michelangelo, dell’Iliade di Omero, di un romanzo di Murakami, di un dramma di Shakespeare, un brano di Mozart o di Beethoven, i canti della divina Commedia.
Credetemi, c’è un regalo di Natale che vi aspetta, non lasciatevelo sfuggire.