“La donna difficile non è sgarbata, gretta o cattiva. E’ solo decisa a fare la problematica se la situazione lo richiede; l’esigente se la circostanza lo vuole; e l’ostinata, se qualcuno prova a raggirarla. Non le importa un fico secco se “si è sempre fatto così”. E’ insensibile all’idea che per le donne sia “naturale” agire in un certo modo o rassegnarsi a uno status inferiore.” E così di seguito per altre tre pagine nell’epilogo del libro che in più di quattrocento pagine racconta di numerose donne che per lo più nel Regno Unito o comunque nel mondo anglosassone hanno lottato duramente per la parità di diritti.
Helen Lewis, classe 1983, è una scrittrice e giornalista britannica, che vive e lavora a Londra come staff writer per la rivista The Atlantic. Ha studiato lingua e letteratura inglese all’Università di Oxford. Ha una vasta esperienza nel giornalismo e una frequente presenza in trasmissioni radiofoniche e televisive. “Donne difficili. Storia del femminismo in 11 battaglie”, Blackie Edizioni 2021, è il suo primo libro e ha riscosso notevole apprezzamento nel Regno Unito.
Lewis chiarisce subito il suo intento di recuperare figure difficili, nel senso di complicate, per rivendicare il diritto alle donne di essere imperfette e per contrastare una storia edulcorata del femminismo che rischia di trasformare “un movimento politico radicale in un’orgia di buonismo”. Cita in modo critico il successo di “Storie della buonanotte per bambine ribelli”, una serie di libri per l’infanzia che ha venduto oltre un milione di copie e che propone biografie di donne tutte al positivo, anche talvolta contro la verità storica. Se concede che questo approccio semplificante può essere tollerato in un libro per bambini, non accetta che la storia delle donne possa ridursi a “una frivola caccia alle eroine” e si propone quindi di restituire complessità alle pioniere del femminismo e a tutta la loro azione. Riflettendo sulla quarta ondata del femminismo nei primi dieci anni del ventunesimo secolo ha avuto l’impressione inoltre che il femminismo fosse in una posizione di stallo, più lacerato da polemiche inconcludenti rispetto alle generazioni precedenti, tradendo inoltre una pericolosa carenza di obiettivi. E tutto ciò a fronte di un riflusso, a livello politico generale, già dietro l’angolo e che presto si sarebbe manifestato in tutto il mondo con personaggi e movimenti populisti e nazionalisti che premevano per un ritorno a ruoli di genere tradizionali e affossando diritti, come quello all’aborto, dove era già stato ottenuto e ostacolandolo in paesi come l’Irlanda dove non era ancora stato raggiunto. Il vedere poi da parte delle giovani generazioni il misconoscimento delle battaglie di ieri e la convinzione invece che il femminismo abbia vinto molte battaglie, ma non la guerra, sono stati incentivi ad indagare come le donne siano arrivate fino a qui nella speranza che ci aiuti ad andare avanti interrogandoci anche sulle intransigenze o sui compromessi che le donne difficili del passato hanno dovuto mettere in atto per ottenere dei risultati.
Considerando la situazione del femminismo attuale Lewis sostiene che “bisogna trattare le donne come più di un insieme variegato di individui. Formiamo una classe, unita da problemi comuni nella stessa misura in cui è divisa dalle differenze. Il femminismo deve allargare le braccia a sufficienza per vedersela con il fatto che altre identità – lesbica, immigrata, adultera – possano ostacolare una donna quanto il suo sesso. Non esiste un unico modo di essere donna né un modello universale di femminilità. Molte delle battaglie ancora in corso sono complicate dalle diversità tra le donne tanto quanto dalla diversità tra noi e gli uomini”.
Il libro si snoda intorno a undici temi – divorzio, voto, sesso, gioco, lavoro, sicurezza, amore, istruzione, tempo libero, aborto, il diritto di essere difficili – trattati in modo molto ricco e articolato. L’autrice ci restituisce figure storiche, ai più sconosciute, appartenenti alla prima ondata del femminismo intorno agli anni dieci del Novecento e della seconda ondata degli anni Settanta, per poi dare conto delle caratteristiche assunte oggigiorno da ciascuna problematica e degli irrisolti spesso presenti ancora ai giorni nostri nonostante le battaglie di queste pioniere. Impossibile una sintesi di un materiale ricchissimo e si può solo accennare ad alcune figure indimenticabili e ad alcune problematiche che ancora oggi appaiono centrali nella lotta per la parità e la libertà. Per quanto riguarda il tema del divorzio indimenticabile la figura di Carolyn Norton che, nella metà dell’Ottocento, durante il suo infelice matrimonio aveva contribuito alle finanze familiari con la sua attività di romanziera e che poi si mise a sfornare pamphlet per rivendicare il suo diritto di rivedere i figli dopo il divorzio che allora era basato sul concetto di colpevolezza, rimasto sostanzialmente fino ai giorni nostri. Carolyn Norton, ha condotto la sua ostinata lotta perché le donne non fossero cittadine di serie B che passavano dalla tutela del padre a quella del marito; lotta che ha trovato risposte parziali solo negli anni Venti del Novecento e dopo altre battaglie degli anni Settanta, ma che ancora oggi mostra problemi, per esempio per chi affronta un divorzio disponendo di pochi mezzi. Nonostante tutto ciò è una figura ostica per le femministe odierne. Carolyn infatti era una donna borghese che sebbene rivendicasse per sé il diritto di divorziare e poter comunque rimanere madre dei suoi figli, sosteneva l’inferiorità della donna come un precetto di Dio e di non aver mai aspirato “alla folle e assurda dottrina della parità”.
Nel capitolo sul sesso emerge la figura di Marie Stopes, che sarà stata forse una donna impossibile, ma gli sudi suoi e della principessa Marie Bonaparte sul corpo e la sessualità femminile ancora oggi ci possono insegnare qualcosa. Stopes nel 1921 inaugurò la sua prima Mother’s Clinic col sostegno di Lady Constance Lytton ( luminosa figura di suffragetta, di cui Lewis parla nel capitolo sul voto) e si adoperò con altre riformatrici per la contraccezione come mezzo per ridurre la povertà. La sua clinica sorgeva a Halloway, allora una zona svantaggiata di Londra, e Marie Stopes volle che fosse gestita da personale femminile, composto da infermiere in prima linea e una medica reperibile nei casi più gravi. Nonostante le sue idee su contraccezione e aborto abbiano avuto in parte presupposti discutibili Stopes, oltre al suo impegno nella fondazione di numerose cliniche, ha avuto il merito di rifiutare “Il principio per cui le donne ‘rispettabili’ fossero aliene da impulsi sessuali spontanei” e con le sue ricerche “le portò a capire che erano in diritto di avere impulsi sessuali e che non c’era nulla di cui vergognarsi”.
Nel capitolo sul lavoro Lewis, attraverso la narrazione di alcuni storici scioperi organizzati negli anni Settanta nel Regno Unito da donne immigrate, mette in evidenza i limiti, i privilegi e la parzialità dei sindacati, il cui concetto di ‘proletario’ si riduceva per lo più a ‘bianco, inglese, maschio ’. Per cui alle donne e alle immigrate è venuta spesso a meno la solidarietà dei movimenti sindacali, istituiti per mobilitare la classe operaia. Per le donne è stato necessario essere “difficili” e porre un problema di priorità rispetto alle proprie lotte, perché spesso la storia del femminismo è storia di donne a cui si ripete che portano avanti una causa giusta, ma che devono aspettare il loro turno. Non volle aspettare il proprio turno Jayaben Desai, una minuta donna indiana che con il suo sari rosa sotto un pesante cappotto scozzese guidò dal 1976 per due anni la lotta contro le dure condizioni di lavoro cui erano sottoposte le immigrate nello stabilimento fotografico di Grunwick (Londra Nord). In questa, come in altre mobilitazioni, la questione era che le migranti erano discriminate in qualità di migranti e di donne. Per affrontare la questione è stato necessario elaborare il concetto che la giurista americana Kimbelé Williams Crenshaw definisce “intersezionalità”, che “significa che qualunque riflessione sul sessismo si interseca con la razza, la classe sociale, la sessualità e la disabilità per generare forme sempre nuove di discriminazione”.
La suffragetta Hanna Mitchell diceva: “Non si può vincere una causa tra l’ora di pranzo e quella del tè” e il problema del tempo delle donne e del loro doppio lavoro è uno dei capitoli più interessanti anche per le implicazioni che continua ad avere al giorno d’oggi. Nel 1898 la suffragista americana Charlotte Perkins Gilman fece un certo scalpore col libro “Women and Economics (‘Donne e Economia’). Le sue tesi furono riprese in Inghilterra durante la seconda ondata dal collettivo “Wages for Hauseworks” (‘Salario per il lavoro domestico ’). Selma James era una delle fondatrici del collettivo e nel 1975 scriveva “Noi siamo la manodopera eternamente indispensabile”, ma già nel 1884 lo stesso Engels aveva criticato le strutture del potere capitalista scrivendo “La moderna famiglia singola è fondata sulla schiavitù domestica della moglie”. Selma James nel 1952 pubblicò un pamphlet intitolato “A Woman Place” (‘ Il posto di una donna’), anticipando di un decennio “La mistica della femminilità” di Betty Friedan, ma indagando il problema del lavoro domestico non nelle donne bianche borghesi, ma nelle operaie di colore. Selma James, nata negli Usa emigrò poi in Inghilterra dove si arruolò nel nascente Women’s Liberation Movement e pubblicò nel 1972 “Potere femminile e sovversione sociale” con l’attivista italiana Mariarosa Dalla Costa. Selma nel movimento fu considerata “scismatica, settaria, polarizzante” e sopra le righe per le sue posizioni verso i maschi, era dunque una donna difficile, ma ha avuto il merito di aprire il dibattito sul lavoro non retribuito, che oggi affligge ancora le donne ed è cruciale per la comprensione della disparità, che assume nuove forme e nuovi aspetti anche con l’evoluzione sociale e del mondo del lavoro. Oggi più che mai si pone il problema del tempo delle donne e del cosiddetto “Secondo turno” delle donne lavoratrici, secondo il titolo del libro di Harlie Hochschild del 1989, problema che si acutizza con la maternità. Interessante la provocazione che Lewis lancia a fine capitolo comparando il reddito di base universale e il salario al lavoro domestico domandandosi: “Forse inquadrare il problema (del salario al lavoro domestico n.d.r.) come una piaga che affliggeva principalmente le donne ha contribuito al suo affossamento? Credo di sì. I sussidi riservati alla cittadinanza femminile passeranno sempre per un trattamento speciale. Il reddito di base è un’idea altrettanto provocatoria e irrealizzabile del salario per il lavoro domestico; ma se ne godono anche gli uomini, allora appare automaticamente più seria”.
Abbiamo accennato solo ad alcune delle donne difficili di cui Lewis ci parla, ma molte sono le altre il cui impegno ha fatto la differenza rispetto ai diritti di cui godiamo e per le quali sentiamo gratitudine.