Questo dicembre è iniziato con due anniversari importanti e un triste addio. Lo scorso 1° dicembre, in occasione della Giornata internazionale della lotta contro l’AIDS, abbiamo ricordato i trent’anni dal celebre bacio che l’immunologo Ferdinando Aiuti diede a Rosaria Iardino, all’epoca ragazza, oggi donna straordinaria, affetta da sieropositività, al fine di dimostrare che l’HIV non si trasmette tramite la saliva. Fu un gesto bellissimo, liberatorio: un’azione semplice che emancipò i malati di AIDS dallo stigma sociale e fugò dubbi e paure in una popolazione mondiale all’epoca terrorizzata dal palesarsi sulla scena di un morbo che generava discriminazione ed emarginazione sociale nei confronti di chi ne era affetto. Fu una vittoria della scienza sulla faciloneria, un prendere per mano i ceti sociali più deboli ed esposti alle balle, che non corrono certo solo sui social; fu l’atto d’amore di una donna eccezionale che mise il proprio corpo e la propria immagine al servizio della causa comune, liberando al contempo se stessa e l’intera comunità. Fu un momento di bellezza, uno dei pochi cui abbiamo assistito negli ultimi tre decenni, per il quale non saremo mai abbastanza grati a Rosaria e a chi le consentì di dimostrare, con semplicità ed eleganza, quanto siano sempre sbagliati e deleteri i pregiudizi.
Abbiamo poi ricordato i cento anni dalla nascita e i trenta dalla scomparsa di Ivo Livi, meglio noto come Yves Montand, nativo di Monsummano Terme, in provincia di Pistoia, figlio di un anti-fascista che nel ’23 disse basta e si trasferì in Francia, sognando vanamente l’America. Fu, invece, grazie ai cugini d’oltralpe che Montand assunse questo nome d’arte, frutto di un’antica esclamazione della madre: “Ivo, monta!”, nel senso di rientra in casa, da cui Montand e tutto ciò che ne è seguito. L’amore per Edith Piaf, la grande musica e poi il cinema, a cominciare da “Z – L’orgia del potere” di Costa-Gavras; insomma, l’arte intesa nel suo senso più alto e nobile: tutto questo e molto altro ancora è stato Yves Montand, cui oggi rendiamo omaggio colmi di commozione e gratitudine.
Infine, l’addio a Demetrio Volcic, corrispondente della RAI da oltrecortina, l’uomo che seppe narrare come nessun altro l’ascesa, il declino e infine il collasso dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti. Un italiano mitteleuropeo, nativo di Lubiana, capace di colloquiare col mondo e di penetrare al fondo dei problemi, fino a conoscerne e comprenderne l’essenza. A Volcic dobbiamo servizi straordinari, maratone che avrebbero sfiancato chiunque altro, affreschi di vita vissuta rimasti nella storia del servizio pubblico e la scoperta di riti e tradizioni che altrimenti sarebbero rimasti ignoti, per merito della sua innata abilità nel conquistarsi la fiducia dell’impenetrabile burocrazia sovietica.
Aveva novant’anni e se n’è andato al termine di un’esistenza caratterizzata dal grande giornalismo, dalla passione civile e dall’informazione nella sua accezione migliore. Ora questo intellettuale, italiano di passaporto ma appartenente al mondo, riposa. E a noi non resta che riguardarci i suoi servizi e far tesoro dei suoi insegnamenti. Era la RAI, quella che guardava al resto del globo con curiosità e attenzione. Un giorno, forse, riusciremo a quantificare tutto ciò che negli ultimi vent’anni, diciamo dall’editto bulgaro in poi, abbiamo perduto.
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