Il primo dicembre la Commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio di Giulio Regeni al termine dei suoi lavori ha approvato all’unanimità la relazione finale del suo Presidente, l’on. Erasmo Palazzotto. Nell’illustrare i contenuti della relazione, l’on. Palazzotto ha sottolineato come la Commissione abbia fatto proprie le risultanze delle indagini della Procura della Repubblica di Roma, arrivando alla conclusione che Giulio Regeni sia stato rapito, torturato e ucciso da ufficiali degli apparati di sicurezza della Repubblica araba d’Egitto ed in particolare da ufficiali della National Security Agency. Sulle istituzioni egiziane grava la responsabilità di non essere intervenute, nonostante risulti agli atti il loro tempestivo interessamento ai massimi livelli da parte delle istituzioni italiane. Il Cairo sapeva cosa stava facendo e poteva salvare Giulio: l’immediata mobilitazione italiana, a ogni livello, fin dalla scomparsa, il 25 gennaio 2016, dava all’Egitto «il tempo per intervenire e per salvare la vita a Regeni. La responsabilità di questa inerzia grava tutta sulla leadership egiziana».
Quindi la relazione richiede un « salto di qualità » nell’esercizio della pressione diplomatica sull’Egitto, al fine di riaffermare chiaramente che per il nostro Paese l’esigenza di assicurare alla giustizia i responsabili dell’omicidio di Giulio Regeni investe direttamente l’interesse nazionale al pari delle questioni di natura geopolitica e strategica. Segnala infine l’opportunità di richiamare con maggiore forza il coinvolgimento dell’Unione europea e di prendere in considerazione il ricorso agli strumenti del diritto internazionale a partire dall’attivazione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. Il lavoro della Commissione d’inchiesta in sostanza conferma gli approdi a cui è pervenuta l’indagine espletata dalla Procura della Repubblica di Roma, che ha portato all’incriminazione di quattro dei presunti aguzzini del ricercatore italiano.
Quello che rileva, non è la scoperta di elementi nuovi, ma il fatto che il Parlamento italiano abbia ufficialmente accertato la responsabilità delle autorità politiche egiziane, qualificando il delitto Regeni come un delitto di Stato. A questo punto non può più essere eluso il problema della reazione politico-diplomatica dello Stato italiano a fronte di un oltraggio così grave perpetrato dall’Egitto. La Commissione parlamentare chiede che la questione venga posta con maggior forza nel contesto dell’Unione Europea, però come potrebbe l’Italia stigmatizzare il comportamento di altri Stati, come la Spagna di Sanchez, che ha rinnovato con il Cairo il protocollo di cooperazione finanziaria per 400 milioni di euro, quando il Governo italiano non ha esitato a procedere alla vendita all’Egitto di due fregate Fremm e di armi leggere a favore della polizia? Per una bizzarra coincidenza la notizia delle conclusioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio di Giulio Regeni si è incrociata con la notizia dell’Expo militare in corso in Egitto dal 29 novembre, così abbiamo scoperto che il primo sponsor dell’esposizione è l’azienda pubblica italiana Fincantieri e che nel padiglione H2 sono presenti due aziende italiane, Iveco e Intermarine. Ancora una volta l’etica degli affari prevale sui diritti umani. Nello stesso giorno, il 29 novembre, si è aperta a L’Aia la ventiseiesima Conferenza degli Stati aderenti alla Convenzione sulle armi chimiche (CSP-26). La Conferenza offre ai suoi 193 Stati membri un’opportunità unica di dimostrare la propria determinazione ad ostacolare e sanzionare l’uso di armi chimiche. La speranza è che la riprovazione internazionale per l’uso di armi chimiche non venga attivata ad intermittenza, soltanto nei confronti di alcuni attori politici e non di altri.
Non possiamo dimenticare che nella notte fra il 13 ed il 14 aprile del 2018 Francia, Inghilterra e Stati Uniti, hanno effettuato una serie di bombardamenti contro la Siria di Assad accusata di aver fatto uso di armi chimiche nei confronti dei ribelli. Nel suo discorso, tenuto qualche giorno dopo al Parlamento europeo il Presidente Macron ha rivendicato l’azione assumendo che l’intervento di Francia, GB e Usa avrebbe salvato l’onore della Comunità internazionale. Però se si ha veramente a cuore l’onore della Comunità internazionale occorrerebbe che tutti i casi in cui viene denunciato l’uso di armi chimiche venissero investigati dagli ispettori dell’OPAC (l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche) e adeguatamente sanzionati i responsabili, ove accertati. Per questo sarebbe opportuno che la Conferenza prenda in considerazione l’accorata denuncia fatta pervenire dal Congresso Nazionale del Kurdistan (KNK): “Da decenni lo Stato turco usa armi chimiche contro la popolazione civile e le forze di guerriglia che ancora resistono in Kurdistan. Dal 23 aprile di quest’anno, la Turchia ha aumentato in modo massiccio l’uso di queste armi, benché vietate, durante i suoi attacchi al Kurdistan meridionale (Iraq settentrionale) come potenza occupante. Ha quotidianamente usato armi chimiche: più di 300 di questi attacchi sono stati ufficialmente confermati”.
Il documento ricorda che sono stati rivolti numerosi appelli internazionali all’OPAC, all’ONU e al Comitato Internazionale della Croce Rossa perché indagassero ed impedissero questi crimini di guerra “ma nessuna di queste istituzioni ha ancora risposto” e quindi conclude: “Invitiamo ancora una volta l’OPAC e tutti i suoi Stati membri a inviare immediatamente una delegazione di esperti nella regione colpita del Behdinan, per svolgere indagini in loco e quindi impedire alla Turchia l’utilizzo di armi chimiche nella regione.” Attendiamo anche noi che l’OPAC invii i suoi ispettori in loco per verificare se la Turchia abbia fatto uso di armi chimiche. Se si vuole salvare l’onore della Comunità internazionale.