Portare sul palco l’opera del raffinato autore siciliano è un’impresa al pari dello storico allunaggio, da cui prese spunto per la sua opera Vincenzo Consolo, nel 1969, quando l’uomo giunse per la prima volta sulla Luna, scardinando sogni, frantumando il vagheggiato luogo eletto dalla letteratura, scompaginando l’Immaginario della Poesia e della Fantasia. Quell’evento suscitò nell’animo sensibile dei letterati un anelito animistico di oniriche visioni. Poco prima di quella data, forse presago di quella “dissacratoria” avventura spaziale, il poeta Lucio Piccolo aveva scritto, ispirandosi a Leopardi, “L’Esequie della Luna”, una prosa-canovaccio pubblicata da Pasolini in “Nuovi argomenti 1967”, destinata ad un’opera tra musica e balletto, mai rappresentata. Fortunatamente, a detta di Consolo, Piccolo morì poco prima, evitandosi lo sconcerto per tanta profanazione.
“Di quella prosa si era innamorato un giovane palermitano, Roberto Andò, che voleva farne un’opera teatrale e si rivolse a me per lavorare su questo progetto…
Il risultato è questo “Lunaria” che temo ahimè sia lontano dal genere teatrale. Penso che Lunaria sia solo un “cunto”, una storia, un racconto dialogato scritto per essere letto. È questa la ragione per cui lo pubblico.”
Con queste parole Consolo aveva spiegato la genesi e la destinazione dell’affascinante scritto, che qualche raro teatrante temerario e appassionato contraddice, osando rappresentarlo.
È il caso di questo “Lunaria” in cartellone per AltreScene al Centro Zō di Catania; un adattamento realizzato in prima nazionale da Daniela Ardini e Giorgio Panni già nel 1986, seguito nel 2006 da “Lunaria” di Vincenzo Pirrotta che realizzò una prosa infarcita di musiche e canti, e nel 2012 dal “Lunaria” di Roberta Torre che ne ricavò un’operina barocca.
In quest’ultima versione unico attore in scena è Pietro Montandon, che ci ha già deliziato interpretando opere come “Maruzza Musumeci” da Andrea Camilleri, ora approdato al simbolismo della prosa barocca di straordinaria bellezza e profondità di Consolo, pur nell’apparente leggerezza dell’esile trama.
Nel “cunto” si contrappongono due mondi: la corrotta vita cortigiana di Palermo e la scarna semplicità della campagna della Contrada senza nome, che simbolicamente rappresentano il Potere e la Poesia a confronto.
Casimiro, malinconico Viceré afflitto da una moglie esuberante e da uno stuolo di parenti avidi, di cortigiani infidi, è costretto a vivere in una città solare e violenta che non ama, la “felicissima”, degradata Palermo, vagamente settecentesca, intrisa di malinconie e atrocità. Questo bizzarro Viceré, lunatico, misantropo, non crede nel Potere che deve rappresentare; è il solo a vedere, al di là del barocchismo delle apparenze, lo squallore decadente della realtà che lo circonda. Una notte sogna o presagisce la caduta della Luna…e la Luna cade realmente in una Contrada senza nome del Vicereame, sotto gli occhi stupiti e terrorizzati dei villani che raccolgono i pezzi dell’astro per seppellirli. Uno di loro, Mondo, il più veloce, viene inviato per narrare l’evento a corte, dove grande è lo sgomento, mentre regna lo scompiglio tra i fumosi accademici, intenti a cercare le cause del portento. Mentre si svolge l’incontro tra il Viceré e il grezzo contadino miracolosamente la Luna risorge nella Contrada Senza Nome, agreste luogo incontaminato. Grande festa, ritorno di Mondo, arrivo del Viceré, che chiamerà Lunaria il luogo dove è risorta la Luna, simbolo della Poesia, sublime inganno dei mortali, mentre si spoglierà delle sue vesti regali rinunciando al Potere effimero e venefico.
Tutto ciò viene densamente narrato in un infaticabile performance da Pietro Montandon, diretto da Daniela Ardini, che ha anche curato la riduzione teatrale. Pur sofferente di un’inevitabile contrazione della ponderosa ricchezza linguistica e filosofica dell’onusto testo, questo “Lunaria” si avvale della multiforme e ingegnosa interpretazione del talentuoso attore, intento da solo a popolare il palco di fantasmi e manichini, manovrati in un incessante andirivieni dalle funamboliche movenze. La scena scandita in geometrie di triangoli e suppellettili emblematiche offre a Montandon l’occasione per moltiplicare i suoi interventi con sorprendente duttilità, mentre un proteiforme dispiegarsi di forme, caratteri, sesso, linguaggi, suscita nello spettatore sorrisi e riflessioni, a fronte di una parola densa e gravida di significato, assaporata e offerta nel suo doppio segno estetico e semantico.
I punti di forza della pièce sono la straordinaria ricchezza del linguaggio e l’efficace resa drammaturgica del protagonista, mentre l’atmosfera onirica e inquietante della scrittura di Consolo, affilata dal taglio ironico della sua penna arguta, qui si sfilaccia cedendo il passo a momenti di comicità grottesca, quasi macchiettistica, a vere e proprie gags, come la prosopopea della falsa scienza degli accademici o l’annuncio a corte biascicato del vecchio mazziere.
L’incanto della Luna, infranto dall’allunaggio, rinasce dunque e rifiorisce caparbiamente sulla bocca dei contadini di una “Contrada che è Nostalgia, sogno della Luna”, perché essi conservano “la memoria, la lingua, i gesti essenziali, il bisogno del sogno che lenisce e che consola”. Ma non vissero tutti felici e contenti.
Colpo di scena nel finale, la grande illusione foscoliana della Poesia eterna consolatrice indossa i panni di Mondo, un contadino al quale il Viceré smarrito spogliandosi delle insegne regali svela che “…io non sono più il Viceré. Io l’ho rappresentato solamente… e anche voi avete recitato una felicità che non avete.
È finzione la vita, melanconico teatro, eterno mutamento…”, stendendo un delicato velo di caducità sulla concezione dell’esistenza.
LUNARIA
di Vincenzo Consolo
Regia Daniela Ardini
Con Pietro Montandon
Scene Giorgio Panni e Giacomo Rigalza
Costumi di Maria Angela Cerruti
Luci e fonica di Luca Nasciuti
Produzione Lunaria Teatro di Genova
Nell’ambito della rassegna AltreScene al Centro Zō di Catania