Alla maternità come conflittualità mai sanata, come forza creatrice e tornado distruttivo, come evento destinato a segnare nel bene e nel male la vita di una donna ha rivolto il suo sguardo penetrante Pedro Almodóvar che, con Madres paralelas, ha aperto la mostra del cinema di Venezia presieduta dal coreano Bong Joon-ho. Ed è una coincidenza che piace sottolineare questa della presenza dei due grandi maestri che si incrociano a Venezia, perché anche l’acclamato regista premio Oscar per Parasite aveva messo a fuoco la relazione madre-figlio – in una modulazione torbida e viscerale – nell’inquietante Madre, presentato a Cannes nel 2009 ma giunto nelle nostre sale soltanto la scorsa estate. Storie, atmosfere e recitazioni diversissime con un unico elemento comune: non c’è niente di semplice nell’essere madre, non c’è niente di normale in questo affare tutto femminile in cui l’uomo può anche non esserci.
La travolgente Penelope Cruz, che ha conquistato la coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile, infonde determinazione, forza e bellezza al personaggio di Janis, un’affermata fotografa quasi quarantenne, impegnata in una battaglia civile per la conservazione della memoria storica legata ad un oscuro capitolo ancora aperto della guerra civile spagnola. Una fossa comune, di cui tutti nel suo paese d’origine conoscono l’ubicazione, contiene le ossa del suo bisnonno e dei tanti altri desaparecidos catturati dai falangisti in una tragica notte di luglio. Proprio dall’uomo che le apre una prospettiva concreta per l’apertura della fossa, Arturo, seducente antropologo forense interpretato con millimetrica precisione da Israel Elejalde, Janis riceve l’inatteso dono della gravidanza che vive con grande gioia pur nella consapevolezza che la bambina non avrà un padre. Arturo, infatti, è sposato e la moglie è in chemioterapia, cosa che lo induce a non abbandonarla e a ventilare la possibilità dell’aborto a Janis. Ad affiancare senza alcun affanno la Cruz, una giovane attrice rivelazione dagli immensi occhi chiari, Milena Smit, che sintetizza con sorprendente maturità interpretativa il percorso accidentato e complesso di Ana, adolescente dallo sguardo perso e ferito da una doppia ingiuria, quella dell’indifferenza di genitori che la tollerano e la considerano un inciampo alla carriera e quella di una gravidanza che è conseguenza di eccessi alcolici e di uno sporco ricatto sessuale.
Le due donne si conoscono in ospedale ormai prossime al parto. Entrambe sono single e non hanno cercato la gravidanza, ma, mentre la prima vive il momento con entusiasmo, la seconda manifesta malessere e pentimento. E non potrebbe essere diversamente: il concepimento per Janis è stato gioioso, spontaneo e appagante, per Ana invece è stato forzato, innaturale e predatorio. Potrebbero sembrare esse stesse madre e figlia, perché Ana è assetata di quelle attenzioni che non ha mai ricevuto e Janis è lieta di fornire a quella madre/bambina ciò di cui ha bisogno. Ma il loro rapporto, che potrebbe concludersi dopo quelle poche ore di condivisione e di attesa, prenderà una direzione inattesa e conoscerà altre intese. Il destino (ma è davvero proprio soltanto il destino?) le farà incontrare ancora: uno scricciolo ferito a morte che tenta di ricominciare a vivere attraverso l’indipendenza economica e una donna matura che custodisce una menzogna insopportabile. Resteranno insieme ma come coppia, con una bambina da accudire (sì, una soltanto) e un affetto che cresce nella complicità e nella tenerezza. Le grandi bocche fameliche tanto care al regista si incontreranno per baci e parole che pretendono più di una semplice convivenza nella stessa casa, più del reciproco aiuto di due single in difficoltà organizzative.
Dopo Dolor y gloria, gioiello introspettivo e film necessario come personale percorso terapeutico, Almodóvar mantiene in Madres paralelas il rigore e la misura tanto distanti dalla sua prima cinematografia – arruffata, eccessiva e dissacrante – e conserva un equilibrio, visibile persino nelle scelte dei colori e delle ambientazioni, che giova alla pulizia del discorso narrativo e alla compiutezza di un registro registico che appare, in questa fase di maturità artistica, estremamente persuasivo.
Torna, e in questo si riconosce la consueta cifra stilistica dell’autore, l’addensarsi dei fatti, alcuni assai improbabili, quasi bizzarre forzature, che si riverbera negli accadimenti interiori di vite che continuano a scorrere tra verità sottaciute che deviano il corso degli eventi. Tutto in Almodóvar è vita concreta e pulsante, le gioie e le grandi tragedie convivono e si tengono a braccetto senza mai suggerire la rinuncia, unica vera colpa di cui non macchiarsi. Un ottimismo di fondo guida sempre la fantasia creativa del regista madrileno, una luce, che coincide con le varie declinazioni dell’amore, che sorregge e orienta personaggi feriti che non vogliono rassegnarsi a sopravvivere. Succedono molte cose in Madres paralelas dopo l’apparente quiete del primo tempo, ma persino gli accostamenti più inverosimili (una su un milione la probabilità di morte in culla, una su chissà quante quella dello scambio di neonati in ospedale) nelle sue sceneggiature sembrano disinvolti e naturali. Fatti, dunque, fatti assai personali che incontrano fisicamente la storia collettiva nella bellissima sequenza finale in cui un piccolo corteo, di impianto pittorico, porge omaggio alle ossa dei propri antenati, ossa che, in una breve, folgorante visione ridiventano gli uomini di un tempo. Si è figli di una donna, sempre, e si è figli della propria terra, sempre. Un unico grembo partorisce le piccole storie degli individui e la grande storia delle nazioni.
Tornano i luoghi del cuore, la città con i suoi ritmi frenetici e il paese con i suoi tempi dilatati e sospesi, come in Dolor y gloria, e sembra quasi che Almodóvar voglia riprendere un discorso non concluso per dilatarne i confini, per passare dal particolare all’universale, dal dettaglio della propria vicenda personale al campo lungo della storia e dei conti irrisolti con il franchismo e con il debito contratto con i desaparecidos. E in questo passaggio si inserisce la tematica della differenza generazionale che determinerà una grande frattura emotiva tra le donne quando Ana mostrerà disinteresse per eventi lontani da cui non si sente minimamente sfiorata. Ma Ana appartiene appunto alla generazione della memoria informatica a breve termine, del sesso che può assumere le sembianze mostruose del revenge porn, della coscienza sociale che latita se non alimentata.
Tornano gli spazi concessi al teatro, luogo per eccellenza di verità e finzione, e i lunghi monologhi incastonati come gemme nella sceneggiatura che apre un varco al palcoscenico e alla riflessione sul mestiere dell’attore. Qui è la splendida Aitana Sánchez-Gijón, la madre attrice di Ana, a bucare lo schermo, sia quando irrompe nella stanza d’ospedale per annunciare il successo di un provino prima ancora di informarsi della salute della partoriente sia quando esprime la sua vera essenza – piacere a tutti – nel magnetico primo piano che conduce all’ascolto di quel provino che attinge alla magia di García Lorca. Eccola la madre senza istinto materno, una sorta di anti-madre che sceglie la carriera ma che avverte la lacerazione della sua scelta e la condanna negli occhi della figlia. Si può essere madri senza entusiasmo, quasi per dovere e anche questa è una forma di tragedia, perché copione vuole che una madre sia felice di esserlo, a qualsiasi costo.
Tornano i volti di attrici care al regista: Julieta Serrano, come in Dolor y gloria in una breve ma vibrante interpretazione, è una donna ormai vecchia e vicina alla morte che desidera riappacificarsi con il proprio passato di figlia di uno scomparso; Rossy de Palma è la donna in carriera che procura a Janis i servizi fotografici da effettuare ma è anche l’amica del cuore, tanto vicina e coinvolta da suscitare la gelosia di Ana.
Torna a brillare l’universo femminile per il desiderio di indipendenza, per la capacità di lottare, per la predisposizione alla comprensione, e in esso si inserisce la limpida figura di Armando, che si avvicina alla realtà di puro istinto, che spiana lentamente il suo futuro in modo propositivo e, secondo la sua logica, leale.
Sulle vorticose esistenze dei suoi personaggi, che convivono con le proprie colpe e i propri dilemmi morali, Almodóvar non posa mai uno sguardo indagatore e snuda le coscienze senza mai giudicare perché esistono sempre delle valide motivazioni alla base di gesti, parole, scelte. E se anche non esistessero, il regista si limiterebbe a guardare e a riprendere la vita che gli scorre accanto.
Sui resti identificati dei desaparecidos e sul volto inconsapevole di una bambina si posa l’amore, l’unica vera cerniera tra il passato e il presente, l’unica soluzione onnicomprensiva ai capricci della vita.
Madres paralelas
Regia: Pedro Almodóvar
Produzione: Remotamente Films / El Deseo D.A. (Agustín Almodóvar, Esther García)
Durata: 123 min.
Lingua: Spagnolo
Paesi: Spagna
Interpreti: Penélope Cruz, Milena Smit, Israel Elejalde, Aitana Sánchez-Gijón, Julieta Serrano, Rossy De Palma
Sceneggiatura: Pedro Almodóvar
Fotografia: José Luis Alcaine
Montaggio: Teresa Font
Scenografia: Antxon Gómez
Costumi: Paola Torres
Musica: Alberto Iglesias
Suono: Sergio Bürmann
Alla maternità come conflittualità mai sanata, come forza creatrice e tornado distruttivo, come evento destinato a segnare nel bene e nel male la vita di una donna ha rivolto il suo sguardo penetrante Pedro Almodóvar che, con Madres paralelas, ha aperto la mostra del cinema di Venezia presieduta dal coreano Bong Joon-ho. Ed è una coincidenza che piace sottolineare questa della presenza dei due grandi maestri che si incrociano a Venezia, perché anche l’acclamato regista premio Oscar per Parasite aveva messo a fuoco la relazione madre-figlio – in una modulazione torbida e viscerale – nell’inquietante Madre, presentato a Cannes nel 2009 ma giunto nelle nostre sale soltanto la scorsa estate. Storie, atmosfere e recitazioni diversissime con un unico elemento comune: non c’è niente di semplice nell’essere madre, non c’è niente di normale in questo affare tutto femminile in cui l’uomo può anche non esserci.
La travolgente Penelope Cruz, che ha conquistato la coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile, infonde determinazione, forza e bellezza al personaggio di Janis, un’affermata fotografa quasi quarantenne, impegnata in una battaglia civile per la conservazione della memoria storica legata ad un oscuro capitolo ancora aperto della guerra civile spagnola. Una fossa comune, di cui tutti nel suo paese d’origine conoscono l’ubicazione, contiene le ossa del suo bisnonno e dei tanti altri desaparecidos catturati dai falangisti in una tragica notte di luglio. Proprio dall’uomo che le apre una prospettiva concreta per l’apertura della fossa, Arturo, seducente antropologo forense interpretato con millimetrica precisione da Israel Elejalde, Janis riceve l’inatteso dono della gravidanza che vive con grande gioia pur nella consapevolezza che la bambina non avrà un padre. Arturo, infatti, è sposato e la moglie è in chemioterapia, cosa che lo induce a non abbandonarla e a ventilare la possibilità dell’aborto a Janis. Ad affiancare senza alcun affanno la Cruz, una giovane attrice rivelazione dagli immensi occhi chiari, Milena Smit, che sintetizza con sorprendente maturità interpretativa il percorso accidentato e complesso di Ana, adolescente dallo sguardo perso e ferito da una doppia ingiuria, quella dell’indifferenza di genitori che la tollerano e la considerano un inciampo alla carriera e quella di una gravidanza che è conseguenza di eccessi alcolici e di uno sporco ricatto sessuale.
Le due donne si conoscono in ospedale ormai prossime al parto. Entrambe sono single e non hanno cercato la gravidanza, ma, mentre la prima vive il momento con entusiasmo, la seconda manifesta malessere e pentimento. E non potrebbe essere diversamente: il concepimento per Janis è stato gioioso, spontaneo e appagante, per Ana invece è stato forzato, innaturale e predatorio. Potrebbero sembrare esse stesse madre e figlia, perché Ana è assetata di quelle attenzioni che non ha mai ricevuto e Janis è lieta di fornire a quella madre/bambina ciò di cui ha bisogno. Ma il loro rapporto, che potrebbe concludersi dopo quelle poche ore di condivisione e di attesa, prenderà una direzione inattesa e conoscerà altre intese. Il destino (ma è davvero proprio soltanto il destino?) le farà incontrare ancora: uno scricciolo ferito a morte che tenta di ricominciare a vivere attraverso l’indipendenza economica e una donna matura che custodisce una menzogna insopportabile. Resteranno insieme ma come coppia, con una bambina da accudire (sì, una soltanto) e un affetto che cresce nella complicità e nella tenerezza. Le grandi bocche fameliche tanto care al regista si incontreranno per baci e parole che pretendono più di una semplice convivenza nella stessa casa, più del reciproco aiuto di due single in difficoltà organizzative.
Dopo Dolor y gloria, gioiello introspettivo e film necessario come personale percorso terapeutico, Almodóvar mantiene in Madres paralelas il rigore e la misura tanto distanti dalla sua prima cinematografia – arruffata, eccessiva e dissacrante – e conserva un equilibrio, visibile persino nelle scelte dei colori e delle ambientazioni, che giova alla pulizia del discorso narrativo e alla compiutezza di un registro registico che appare, in questa fase di maturità artistica, estremamente persuasivo.
Torna, e in questo si riconosce la consueta cifra stilistica dell’autore, l’addensarsi dei fatti, alcuni assai improbabili, quasi bizzarre forzature, che si riverbera negli accadimenti interiori di vite che continuano a scorrere tra verità sottaciute che deviano il corso degli eventi. Tutto in Almodóvar è vita concreta e pulsante, le gioie e le grandi tragedie convivono e si tengono a braccetto senza mai suggerire la rinuncia, unica vera colpa di cui non macchiarsi. Un ottimismo di fondo guida sempre la fantasia creativa del regista madrileno, una luce, che coincide con le varie declinazioni dell’amore, che sorregge e orienta personaggi feriti che non vogliono rassegnarsi a sopravvivere. Succedono molte cose in Madres paralelas dopo l’apparente quiete del primo tempo, ma persino gli accostamenti più inverosimili (una su un milione la probabilità di morte in culla, una su chissà quante quella dello scambio di neonati in ospedale) nelle sue sceneggiature sembrano disinvolti e naturali. Fatti, dunque, fatti assai personali che incontrano fisicamente la storia collettiva nella bellissima sequenza finale in cui un piccolo corteo, di impianto pittorico, porge omaggio alle ossa dei propri antenati, ossa che, in una breve, folgorante visione ridiventano gli uomini di un tempo. Si è figli di una donna, sempre, e si è figli della propria terra, sempre. Un unico grembo partorisce le piccole storie degli individui e la grande storia delle nazioni.
Tornano i luoghi del cuore, la città con i suoi ritmi frenetici e il paese con i suoi tempi dilatati e sospesi, come in Dolor y gloria, e sembra quasi che Almodóvar voglia riprendere un discorso non concluso per dilatarne i confini, per passare dal particolare all’universale, dal dettaglio della propria vicenda personale al campo lungo della storia e dei conti irrisolti con il franchismo e con il debito contratto con i desaparecidos. E in questo passaggio si inserisce la tematica della differenza generazionale che determinerà una grande frattura emotiva tra le donne quando Ana mostrerà disinteresse per eventi lontani da cui non si sente minimamente sfiorata. Ma Ana appartiene appunto alla generazione della memoria informatica a breve termine, del sesso che può assumere le sembianze mostruose del revenge porn, della coscienza sociale che latita se non alimentata.
Tornano gli spazi concessi al teatro, luogo per eccellenza di verità e finzione, e i lunghi monologhi incastonati come gemme nella sceneggiatura che apre un varco al palcoscenico e alla riflessione sul mestiere dell’attore. Qui è la splendida Aitana Sánchez-Gijón, la madre attrice di Ana, a bucare lo schermo, sia quando irrompe nella stanza d’ospedale per annunciare il successo di un provino prima ancora di informarsi della salute della partoriente sia quando esprime la sua vera essenza – piacere a tutti – nel magnetico primo piano che conduce all’ascolto di quel provino che attinge alla magia di García Lorca. Eccola la madre senza istinto materno, una sorta di anti-madre che sceglie la carriera ma che avverte la lacerazione della sua scelta e la condanna negli occhi della figlia. Si può essere madri senza entusiasmo, quasi per dovere e anche questa è una forma di tragedia, perché copione vuole che una madre sia felice di esserlo, a qualsiasi costo.
Tornano i volti di attrici care al regista: Julieta Serrano, come in Dolor y gloria in una breve ma vibrante interpretazione, è una donna ormai vecchia e vicina alla morte che desidera riappacificarsi con il proprio passato di figlia di uno scomparso; Rossy de Palma è la donna in carriera che procura a Janis i servizi fotografici da effettuare ma è anche l’amica del cuore, tanto vicina e coinvolta da suscitare la gelosia di Ana.
Torna a brillare l’universo femminile per il desiderio di indipendenza, per la capacità di lottare, per la predisposizione alla comprensione, e in esso si inserisce la limpida figura di Armando, che si avvicina alla realtà di puro istinto, che spiana lentamente il suo futuro in modo propositivo e, secondo la sua logica, leale.
Sulle vorticose esistenze dei suoi personaggi, che convivono con le proprie colpe e i propri dilemmi morali, Almodóvar non posa mai uno sguardo indagatore e snuda le coscienze senza mai giudicare perché esistono sempre delle valide motivazioni alla base di gesti, parole, scelte. E se anche non esistessero, il regista si limiterebbe a guardare e a riprendere la vita che gli scorre accanto.
Sui resti identificati dei desaparecidos e sul volto inconsapevole di una bambina si posa l’amore, l’unica vera cerniera tra il passato e il presente, l’unica soluzione onnicomprensiva ai capricci della vita.
Madres paralelas
Regia: Pedro Almodóvar
Produzione: Remotamente Films / El Deseo D.A. (Agustín Almodóvar, Esther García)
Durata: 123 min.
Lingua: Spagnolo
Paesi: Spagna
Interpreti: Penélope Cruz, Milena Smit, Israel Elejalde, Aitana Sánchez-Gijón, Julieta Serrano, Rossy De Palma
Sceneggiatura: Pedro Almodóvar
Fotografia: José Luis Alcaine
Montaggio: Teresa Font
Scenografia: Antxon Gómez
Costumi: Paola Torres
Musica: Alberto Iglesias
Suono: Sergio Bürmann