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Ruanda: il genocidio con tanti responsabili e pochi complici

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Il 27 maggio 2021 il presidente francese Emmanuel Macron si è recato in Ruanda e, nel corso della visita al Genocide Memorial di Kigali, ha ammesso le responsabilità del governo francese che, nel 1994, aveva inviato nel Paese africano i militari della missione Turqoise, operativa tra giugno e agosto di quell’anno. Sono oltre venticinque anni che i rapporti tra i Paesi sono tesi proprio in conseguenza agli eventi di quel periodo storico e al ruolo, mai chiarito fino in fondo, svolto dalla Francia. Primo presidente a recarsi in Ruanda dal 2010, Macron ha dichiarato che la Francia ha deluso le 800mila vittime del genocidio ma che non vi è stata alcuna complicità imputabile al suo Paese. Il presidente Paul Kagame è parso soddisfatto per le parole di Macron, mentre dissensi e malumori hanno caratterizzato la reazione del partito di opposizione Rwandese Platform for Democracy e delle associazioni a sostegno dei familiari delle vittime del genocidio.

IL QUARTO GENOCIDIO DEL XX SECOLO

Ma cosa è accaduto esattamente in Ruanda nel 1994? Il quarto genocidio del XX secolo, dopo quello degli armeni, degli ebrei e dei cambogiani.1

All’indomani del Secondo conflitto mondiale, le idee indipendentiste iniziarono a circolare lungo tutto il continente africano. Anche in Ruanda, dove si diffusero maggiormente tra la popolazione di etnia tutsi. Gli hutu si mostrarono invece sempre più nazionalisti e restauratori. Col tempo emerse una vera e propria ideologia dell’ingiustizia sociale su base etnica: gli hutu erano la maggioranza oppressa mentre i tutsi erano i nuovi potenziali oppressori.

Gli scontri su base etnica e politica si sono susseguiti lungo tutta la seconda metà del secolo ma il periodo cruciale della recente storia del Ruanda si snoda tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta.

Il costante rifiuto del presidente ruandese Habyarimana di prendere in considerazione qualsiasi proposta di rientro dei profughi tutsi in Uganda aveva inasprito i toni delle rivendicazioni degli stessi, riunitisi nel Fronte Patriottico Ruandese (Front Patriotique Rwandais). Gli scontri tra l’Fpr e l’esercito regolare, sostenuto dalla guardia regolare dello Zaire e da aiuti provenienti da Belgio e Francia, divennero sempre più frequenti e sanguinosi.

L’Fpr rappresentava, nell’immaginario del tempo, il vento nuovo della democrazia e della lotta al neocolonialismo impersonato invece da Habyarimana. Il nuovo comandante del Fronte, Paul Kagame, oggi presidente della Repubblica di Ruanda, era considerato esponente di rilievo della dottrina dell’Africa Renaissance, ostile al vecchio sistema di corruzione e favorevole a democrazia e liberismo economico.

Nel Paese furono ripristinati vecchi metodi, già utilizzati al tempo della Prima Repubblica: ad ogni attacco del Fronte Patriottico Ruandese si rispondeva con un massacro di cittadini tutsi.

Il conflitto e il genocidio che hanno travolto il Ruanda nel 1994 rappresentano l’emblema drammatico delle guerre etniche africane. Un numero elevatissimo di vittime in poco più di due mesi, quasi tutti tutsi ma anche oppositori hutu.

È stato calcolato che circa trentadue mila responsabili amministrativi di ogni livello, coadiuvati da circa cinquanta mila miliziani interahamwe, dirigessero le operazioni di genocidio, mentre l’esercito regolare era occupato ad affrontare l’Fpr.

Il 6 aprile 1994, l’abbattimento dell’areo sul quale viaggiava il presidente Habyarimana, di ritorno dal vertice tenutosi a Dar es Salaam per favorire un accordo di pace che includesse anche l’Fpr nel nuovo governo di unità nazionale, sembrò essere il segnale atteso per dare il via al cruento genocidio consumatosi, a partire dalla città di Kigali, in tutto il Paese.

Le vittime furono centinaia di migliaia in poche settimane, ma l’emergenza internazionale scattò tardi, solo quando quasi un milione di ruandesi si spostò verso lo Zaire per cercare riparo. È a questo punto che partì l’operazione francese Turqoise, ufficialmente per evitare un ennesimo e finale bagno di sangue. In realtà si suppone che lo scopo principale di questa missione, al pari di quella posta in essere dal Belgio, sia stato mettere in salvo i propri connazionali. Anche se si è sempre vociferato un intervento militare francese al fianco delle milizie hutu in ritirata dopo l’arrivo del Fpr. I caschi blu dell’Onu presenti da tempo nell’area con l’operazione Unamir United Nations Assistance Mission for Rwanda (Missione delle Nazioni Unite di assistenza al Ruanda), autorizzata nell’ottobre 1993 con la Risoluzione 872 e successivamente riconfermata e ampliata, non erano autorizzati a intervenire perché frenati da un mandato che impediva loro l’uso delle armi. Lo scopo principale della missione era supportare e implementare il cammino di pace sancito dagli Accordi di Arusha. Il grosso del contingente si ritirò subito dopo l’esplosione delle violenze. I militari belgi che ne facevano parte furono addirittura accusati di essere complici nell’abbattimento dell’areo del presidente e, alcuni di loro, uccisi.

IL NAZISMO TROPICALE

Il genocidio in Ruanda e il conseguente spostamento in massa di ruandesi oltre il confine, ha aperto una fase di grande instabilità in tutta l’area africana dei Grandi Laghi e, con un intervallo di pochi anni, divenne il detonatore della più grande guerra africana, consumatasi nello Zaire di Mobutu.

A partire dall’ottobre del 1994 il conflitto tra autoctoni zairesi e banyarwanda si trasformò in una guerra di tutti contro i tutsi. Tra il 1995 e il 1996 decine di migliaia di tutsi furono uccisi, ebbero le terre confiscate oppure dovettero rifugiarsi in Ruanda. Anche in questo caso si è parlato di pulizia etnica. Nazismo tropicale è stato definito dallo storico Jean-Pierre Chrètien.2

Poco hanno fatto o potuto i tribunali costituiti dall’Onu, come anche quelli definiti popolari, i Gacaca. Tradizionali tribunali informali nei quali gli anziani erano solitamente chiamati a dirimere controversie di vita quotidiana, i Gacaca furono autorizzati nel 2001 dal governo ruandese a operare in via ufficiale.

Nel loro articolo apparso su African Affairs, Allison Corey e Sandra F. Joireman cercano di dimostrare come, in realtà, i Garaca, istituiti per recuperare l’arretrato di casi di genocidio non processati, abbiano poi in un certo qual modo ingenerato ulteriore confusione e imprecisione. Questi tribunali infatti avrebbero effettuato una eccessiva e troppo netta suddivisione tra i casi di genocidio e quelli di crimini di guerra, processando solo i primi. Ciò ha portato a una protratta insicurezza per tutta la popolazione ruandese, poiché così facendo si persegue una giustizia iniqua, si accentua il divario etnico e il processo viene visto più come una vendetta che una giustizia.3

È necessario comunque sottolineare come, della terminologia connessa al genocidio, si tende a fare un uso politico sempre più strumentale – nel bene e nel male. Fenomeno più o meno simile a quanto accade, più in generale, con la terminologia dei diritti umani. Importante quindi precisare quale sia l’effettiva portata normativa della nozione di genocidio, quale sia cioè lo specifico giuridico di tale concetto.4

Il valore giuridico tutelato dal primo paragrafo della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine internazionale di genocidio adottata dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel 1948 con Risoluzione 260 (III) A, risulta essere la conservazione del gruppo umano. Colpire una massa di individui per motivi diversi dal mero fatto di appartenere a quel gruppo umano protetto (per esempio per motivi politici), non costituirebbe genocidio.

Ecco allora che bisogna chiedersi, per esempio, se per gli esecutori materiali sia davvero possibile parlare del medesimo dolo di cui è portatore il leader, la mente, che ha premeditato, pianificato e scatenato le azioni violente e delittuose. È indubbio che il genocidio sia un crimine collettivo. Per questo i tribunali internazionali indicano una sorta di “intento genocidiario collettivo”, pensato dai leader ma trasmesso poi a tutti gli agenti. Ma questa indicazione manca nella Convenzione.

Paolo De Stefani individua tre livelli di mens rea:

  • I leader della campagna genocidiaria.
  • Gli esecutori partecipi all’ideologia genocidiaria.
  • I complici (aiders and abettors).

Individuando poi nella seconda categoria la più significativa. Infatti, è proprio quando l’ideologia genocidiaria diventa una convinzione diffusa tra larghe fasce di popolazione, e cioè quando si affermano apertamente nel tessuto sociale comportamenti diffusi di carattere genocidiario, che un genocidio si attua nella sua forma più piena. Esattamente quello che è accaduto in Ruanda nel 1994.

Il 2 settembre 1998 il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, istituito dalle Nazioni Unite, emanò la prima condanna a livello mondiale per il reato di genocidio. Jean-Paul Akayesu fu giudicato colpevole di genocidio e crimini contro l’umanità per le azioni che aveva commesso personalmente o alle quali aveva sovrinteso mentre era sindaco della città ruandese di Taba. Sebbene dapprima egli era riuscito a tenere lontani i massacri, dopo una riunione con i leader del governo provvisorio, avvenuta il 18 aprile, qualcosa cambiò profondamente nella cittadina e anche, sembrerebbe, nella sua persona. Akayesu smise i panni civili, indossò una divisa militare e sembrò fare della violenza il suo nuovo modus operandi, al punto da trasformare quelli che erano stati luoghi tranquilli e sicuri fino a quel momento in luoghi di tortura, violenza e omicidio.

Sconta la condanna all’ergastolo in una prigione del Mali.5

Durante la visita a Kigali, il presidente francese Macron non si è mai apertamente scusato, per le azioni del suo Paese, pur ammettendo le responsabilità per quanto accaduto. La Francia quindi è pronta a riconoscere la parte di sofferenze che ha inflitto ai ruandesi ma ciò non significa, secondo le parole di Macron, che sia stato versato sangue innocente ruandese per mano di complici francesi.

Di scuse dirette, come quelle esternate già nel 2000 dal Belgio, non se ne parla. Ma è un altro passaggio del discorso del presidente francese a meritare un approfondimento, ovvero quando si sofferma sull’importanza di riconoscere questo passato ma, soprattutto, proseguire l’opera di giustizia. Ecco allora che la mente rimanda ai tanti ruandesi riparati in Francia e al ruolo che alcuni potrebbero aver avuto nel massacro.

Il 16 maggio 2021, dopo ventisei anni vissuti in latitanza in diversi paesi europei, è stato arrestato in Francia Félicien Kabuga, presunto finanziatore del genocidio del 1994, accusato dal Tribunale Penale Internazionale per crimini contro l’umanità e genocidio nel 1997.

CRISI POLITICA E CONFLITTO ETNICO: A CHE PUNTO SIAMO?

In età recente, quattro sono state le fasi acute del conflitto che ha infiammato il Ruanda:

  • L’accesso all’indipendenza tra il 1959 e il 1962.
  • La crisi dei rifugiati tra il 1963 e il 1966.
  • La crisi esplosa tra il 1972 e il 1973 culminata nel colpo di Stato.
  • La crisi esplosa tra il 1990 e il 1994, culminata nell’atroce genocidio.

Tutte queste crisi sono imputabili alle ideologie derivanti dalla diversità etnica, che hanno reso il Ruanda l’archetipo del paese tribale agli occhi del mondo.

All’arrivo dei tedeschi, sul limitare del XIX secolo, la società e la monarchia ruandesi erano un sistema feudale in piena evoluzione. I colonizzatori si limitarono inizialmente a congelare la situazione preesistente. Anche il Belgio dapprima attuò una forma di governo indiretto, ma poi manovrò per scaricare il malcontento sul prestigio della monarchia feudale, attuando de facto una separazione tra il re e i capi collina tutsi. Un numero sempre più alto di giovani tutsi venne scelto dai colonizzatori per le cariche amministrative e come capi villaggio o capi collina.L’intervento europeo sulla società feudale del Ruanda aveva trasformato i rapporti sociali, indurendoli attraverso gerarchie d’importazione e contribuendo in maniera cospicua alla loro razzializzazione.6

Gli hutu erano circa l’84 per cento della popolazione, i tutsi il 14 e il restante 1 per cento era composto dai twa pigmei.

Una ricerca condotta a Bruxelles tra il 2001 e il 2003 presso le comunità di rifugiati ed esuli ruandesi ha mostrato come la questione identitaria sia stata ulteriormente acutizzata proprio a causa della condizione di popolo in diaspora. Molti dei ruandesi residenti in Europa, in America o altrove, si sentono sopravvissuti tutsi del genocidio ruandese, oppure ingiustamente stigmatizzati come carnefici hutu. In entrambi i casi, la percezione che hanno di loro stessi, del Ruanda e degli assassini dei loro familiari è molto più etnica di quanto non lo fosse in passato.7

In Ruanda invece la presidenza Kagame ha sempre dichiarato di voler sopprimere l’appartenenza etnica, in linea con le idee del nazionalismo africano convenzionale, che condivide e condivideva con quello più radicale la volontà di de-razzializzare le istituzioni, lo Stato e il diritto.8


1Mario Giro, Guerre Nere. Guida ai conflitti nell’Africa contemporanea, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2020

2Jean-Pierre Chrètien, Un “nazisme tropical” au Rwanda? Image ou logique d’un génocide (articolo), Vingtième Siècle. Revue d’histoire, Anno 1995, pp. 131-142.

3Allison Corey, Sandra F. Joireman, Retributive Justice: The Gacaca Courts in Rwanda (articolo), African Affairs, 2004, pp. 73-89.

4Paolo De Stefani, Nozioni e contesti del crimine internazionale di genocidio (articolo), Pace Diritti umani – Peace Human Right, 1/2008, pp. 31-56.

5Ruanda: La prima condanna per genocidio, United States Holocaust Memorial Museum. (https://encyclopedia.ushmm.org/content/it/article/rwanda-the-first-conviction-for-genocide)

6Mario Giro, ibidem

7Carla Pratesi Innocenti, Ibuka. Pratiche, politiche e rituali commemorativi della diaspora ruandese, Annuario di Antropologia 5, 2005, pp. 121-133.

8Stefano Bellucci, Africa contemporanea. Politica, cultura, istituzioni a sud del Sahara, Carocci Editore, Roma, 2010.


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