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Il cinema e la confessione. “Marx può aspettare”, di Marco Bellocchio, Italia, 2021

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Parlare della famiglia è quello che Bellocchio ha fatto da sempre. Parlarne attingendo alla sua esperienza personale è quello che ne ha fatto il grande artista che tutti conosciamo. Questa sua ultima opera segna, in questo senso, una linea di demarcazione ancora più netta. Il regista piacentino stavolta esplicita, senza pudore, i motivi della sua antica ispirazione, raccontandoci, insieme, della sua famiglia e del come l’abbia messa in scena nel corso del tempo. Ciò che prima poteva sembrare solo uno spunto o l’occasione per dire altro, da “Marx può aspettare” in poi diventa riflessione obbligata per lo spettatore, oramai consapevole che tutto il dire di Bellocchio, fino ad oggi, ha la piena certezza dell’autobiografia. E meravigliarsi di ciò è anche darsi torto da soli, visto il percorso artistico dell’autore de “I pugni in tasca”, che proprio da questa prodigiosa opera d’esordio ha legato il suo nome alla Nouvelle Vague italiana, anch’essa, come la progenitrice francese, strettamente ispirata a situazioni e vicende personali, così come teorizzato dal grande maestro dei “giovani turchi” d’oltralpe, André Bazin. Perché, oramai anziano, Bellocchio decide di fare questo passo così importante per se stesso come uomo e come artista? La risposta sta nella domanda. Essere anziano, confrontarsi ogni giorno con la morte, come lo stesso regista afferma nel film, pone a chi vive questa condizione di estrema precarietà l’imperativo di dover confessare tutto, prima a se stessi e poi agli altri. Essere credenti o non credenti come Bellocchio, c’entra poco. È la necessità di andare via da questo mondo senza lasciare niente in sospeso che diventa indispensabile a ristabilire quell’ordine personale capace di dare un senso alla nostra esistenza. “Marx può aspettare” è il racconto di una tragedia familiare, che diventa tragedia personale, quella dello stesso Bellocchio. Il fratello gemello Camillo muore suicida a soli 29 anni nel dicembre del 1968. Sarebbe stato facile fare del sociologismo di comodo e dire che tutte le ragioni di questo gesto stanno in quella fatidica data, in quel “profetico” anno. La ribellione giovanile, esplicitata, anche metaforicamente, dal protagonista del suo primo succitato capolavoro, il mondo che stenta a cambiare nonostante un recente tragico passato. Niente di tutto questo, afferma lo stesso Bellocchio. Camillo a tutto pensava tranne che a cambiare il mondo. “Marx può aspettare” sono proprio le parole che egli pronuncia quando il fratello, oramai celebre, cerca di dargli una ragione di vita incitandolo all’ impegno politico, allora molto più vicino di oggi alle ragioni di tanti giovani suoi coetanei. Camillo è perso nel suo disagio esistenziale, in un deficit identitario, che, come afferma nel film lo psichiatra Luigi Cancrini, è legato forse alla scarsa attenzione affettiva di una madre, rimasta presto vedova e già fortemente distratta da un figlio demente e una figlia sordomuta. O forse il tutto si spiega nel sentirsi inferiore di Camillo dinnanzi al gemello Marco (rapporto sempre particolare e da sempre foriero di infiniti studi e dibattiti), artista geniale in ascesa, e all’altro fratello, Piergiorgio, intellettuale a tutto tondo, critico letterario e fondatore della famosa rivista “Quaderni piacentini”. Forse, il forse domina, naturalmente, in un film dove il protagonista è un “fantasma” che si aggira da più di 50 anni nella mente di chi gli è stato accanto e pena per non aver compreso la sua sofferenza. Dunque, è l’inevitabilità del tragico gesto la sintesi del film di Bellocchio. I commenti commossi, e anche disperati, delle sorelle Maria Luisa e Letizia, le analisi lucide di Piergiorgio e del terzo fratello ancora in vita, Alberto, ben poco servono a chiarire una scelta che trova le sue ragioni, quasi inesplicabili, in un ambiente che, a dire dello stesso autore del film, stentava nell’offrire amore a chi lo cercava, non certo per cattiveria o indifferenza ma per una logica connaturata nella struttura stessa della famiglia, indispensabile cellula umana ma in quanto tale sottoposta a tutte le debolezze in essa insite, e genialmente analizzate definitivamente dalla psicanalisi. E qui il Bellocchio uomo si intreccia con il Bellocchio artista, il quale fa ricorso a sequenze di film precedenti in cui ha fatto cenno a quanto adesso sta analizzando nei minimi particolari, “da “Salto nel vuoto”, dell’80, a “Gli occhi, la bocca”, dell’83, fino a “L’ora di religione”, del 2001. In esse l’artista piacentino dipana le ragioni che sono alla base non tanto del gesto in quanto tale ma del modo di vivere all’interno di un contesto dove quanto detto prima si intreccia, ulteriormente, con la religiosità parossistica della madre e con la figura irrisolta del padre. Bellocchio uomo offre allo spettatore, genialmente, la soluzione ad un enigma che non avrà mai fine attraverso le risposte del Bellocchio artista, in particolare regista. L’ usare filmati “casalinghi” con il fratello protagonista, l’insistere su primi piani che commuovono ma che restano muti, il mettere in parallelo le foto “simmetriche” dei gemelli da piccoli e “asimmetriche” dei gemelli da adulti (l’uno, Marco invecchiato, l’altro, Camillo, rimasto giovane per sempre) diventa per il regista un modo per raccontare l’irraccontabile, l’inefficacia delle immagini a tirare fuori verità che sono soltanto interiori. E la fotografia finale dei “sopravvissuti” Bellocchio conferma tutto ciò. Dietro l’apparente serenità cova intatta la rabbia di tutti i film di questo grande artista ancora tutto da analizzare fino in fondo. L’unico, con Marco Ferreri, capace di mettere in scena una “antiitalianita’ ” da molti ancora maldigerita.

 


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