La democrazia non si esporta con le armi. Non si può andare a produrre solo dove la manodopera costa poco e non ha alcun diritto. L’economia non è speculazione finanziaria. Il PIL non è il solo parametro di una nazione. Non si può sacrificare la salute all’economia, non si può dividere il mondo in chi deve stare sempre meglio e chi deve stare sempre peggio.
Abbiamo ragionato così negli ultimi venti anni, non sempre, non tutti, ma la maggioranza del mondo più ricco ha ragionato e agito così.
La storia presenta il conto, diciamocelo senza paura di accuse di banalità, di buonismo o di moralismo o di essere quelli che “tagliano con l’accetta”.
Il primo conto, tutto ancora da saldare, ce lo ha presentato il cambiamento climatico e la pandemia. Cronache di morti annunciate. Migliaia di pagine di rapporti internazionali ignorati, decine di migliaia di studi che spiegavano esattamente come e quando e in che modo sarebbero collassate intere parti del pianeta e, purtroppo, anche quando e in che modo sarebbero arrivate tragiche pandemie di virus sempre più difficili da trattare.
Ignorati, valutati solo in parte, minimizzati, tranne che da scienziati onesti e coraggiosi, medici preparati, e forse grandi case farmaceutiche. Ma chi volete che avesse voglia di parlare di disastri climatici e virus sconosciuti mentre si dovevano riparare le falle aperte dal collasso economico del 2008, determinato dall’ingordigia e dalla spregiudicatezza di pochi che facevano profitti dopo aver convinto tutti che le agenzie di reting decidono chi sale e chi scende, che le aziende pubbliche devono sparire, che la sanità è un’industria come un’altra, che se un operaio costa meno in Pakistan che a Napoli io lo faccio lavorare in Pakistan e se poi si ammala pazienza.
Basta che non succeda nel mio cortile, questo ha ispirato le società occidentali nel primo ventennio degli anni 2000, che ci stanno facendo rimpiangere alla grande il Novecento. La globalizzazione, i cui danni ancora devono essere scientificamente valutati, si è saldata immediatamente ai problemi climatici attraverso le aziende che delocalizzano e inquinano più delle altre o comunque non intendono avviare interventi reali di riconversione ecologica. Queste sono le bombe che stanno cominciando a scoppiare e che ci fanno pensare che purtroppo siamo solo all’inizio.
Hanno marciato in parallelo, dal 2001, con le sciagurate scelte fatte dai governi americani sull’Iraq e sull’Afganistan, di cui noi paesi europei siamo i ogni caso, con diverse varianti, corresponsabili.
Dopo la seconda guerra mondiale le sciagurate scelte sono state fatte e realizzate prima di tutto dagli americani, dalla Corea al Viet Nam (e fingiamo pure di dire che Saigon è cosa diversa da Kabul ma non è vero), dalla Somalia agli accordi di Mosul per l’Iraq e infine per l’Afganistan, con la penosa sceneggiata di Trump a Petra. E adesso certamente con la fretta eccessiva e la solita miopia americana di Biden.
Certo, l’esodo dell’occidente da Kabul segna un passaggio storico e peserà sulla politica del resto del mondo per altri decenni, anche se la maggioranza della famiglie americane soprattutto degli stati più profondi, compresi quelli della cortina di ruggine, è ben felice che questi soldati rientrino in elicottero subito e non nei sacchi neri fra qualche settimana.
Gli errori della politica estera americana – fra i quali il più grave resta l’attacco di Bush all’Iraq del 2003 – vanno spaventosamente di pari passo con gli errori sull’economia e da ultimo su alcune scelte che riguardano la pandemia di Covid19. Ma qui ora potrebbe entrare in scena l’Europa e prendere in mano la situazione proponendo un patto d’azione comune per l’Afganistan, di trattativa con il governo talebano in difesa delle (poche) conquiste ottenute dal popolo afgano in modo particolare dalle donne, che non dovranno fare un passo indietro. Ma non sarò facile che accada. E invece è questo il momento forte dell’Europa che ha i soldi da stanziare per ricostruire i sui paesi membri ma che può determinare un tentativo di rapporto con il nuovo governo afgano per mantenere soprattutto alle donne i piccoli spazi di diritto e di ugaglianza, un rapporto politico, di mediazione, di ragionamento. Ragionano anche i talebani, convinciamoci che è così.
Certo, oggi, nelle prossime ore un po’ di sfiducia crescerà e questa sfiducia, seppure in modo meno diretto, tocca anche l’Europa, che dimostra ancora una volta di non essere in grado di costruire una politica estera e una politica militare capace di esercitare una concreta influenza nei confronti dell’alleato americano.
Ammettiamolo e mettiamoci a lavoro perché nei prossimi appuntamenti europei ci si metta velocemente insieme per un piano di educazione, preparazione al’economia digitale e rispetto dei diritti umani da dare a questi popoli con il ragionamento, anche con la inevitabile mediazione levantina, insomma con quella che un a volta si chiamava politica.
La botta di Kabul è forte e un pezzetto ce lo meritiamo anche noi, le ambiguità giornalistiche in servizio permanente effettivo degli ultimi 20 anni non si erano mai viste prima, il tutto mentre decine di colleghi di tutto il mondo morivano proprio sui monti afgani. Ma cambiavano i governi locali e allora si ricomiciava sempre da capo, proprio come in tutte le guerre di prima…
Questo secolo velocissimo sulla carta ha ancora 80 anni da giocarsi, può valere la pena ciascuno con il suo contributo anche minuscolo, di lanciarsi in una analisi ma propositiva di radicali cambiamenti che certo non possiamo che pretendere anzitutto dalla politica, e con pretendere dico esserci in modo martellante e non farne passare liscia una. Una spotlight permanente.
Dico subito che alcuni testimoial li abbiamo in casa: Gino Strada è con noi, ancora, ogni sua parola scritta serve proprio adesso e lui ci sta seguendo da vicino. Luigi Ciotti e Alex Zanotelli, con decine di loro compagni di viaggio, devono adesso invadere i campi della politica e pretendere di contare, di essere ascoltati.
E noi giornalisti abbandoniamo il linguaggio dell’ambiguità, diamo spazio a chi racconta le cose dal campo e non per sentito dire sui social, punguliamo la politica a stare ad ascoltare.
Ricordo la copertina dell’ultimo numero dell’Espresso del 1989: “Morire per Kabul?”, i resti dell’Unione Sovietica dissero no. Scapparono. Ora sono sulla riva del fiume in attesa.
Dobbiamo agire, esserci anche noi dei media, capire che è anche una nostra sconfitta ma che non tutto è perduto e i giornalisti che, in genere, hanno capacita di ragionamento e di persuasione, potrebbero fare moltissimo, Corriamo altrimenti il rischio che continuino ad essere vere le parole di Albert Camus ne “La peste”: “Nel mondo ci sono state in egual numero pestilenze e guerre e tuttavia pestilenze e guerre colgono sempre gli uomini impreparati “. Per favore, impreparati no!