Si racconta che un giorno i suoi amici ricondussero a casa Garcia Lorca ubriaco, all’alba, sorreggendolo per le scale: “maestro, si prenda cura di sé, lei deve scrivere un capolavoro”. “La mia vita sarà il mio capolavoro”, avrebbe risposto. La lunga morte di Maurizio Ambrogi, classe 1956, vice-direttore del Tg3 fino a che non è stato costretto a gettare la spugna, è stata il suo capolavoro. Per questo voglio ricordarlo parlando di questo, della sua malattia, la sua lunga morte, piuttosto che della sua brillante carriera, della quale pure ci sarebbe molto da dire. Tra i più acuti e qualificati commentatori politici da anni, Maurizio Ambrogi aveva saputo trasformarsi in quello che tutti chiamano uomo-macchina, un perfetto vice-direttore capace di seguire e curare con attenzione tutti gli aspetti delle impaginazioni, dalla scelta alla scaletta delle notizie. La lunga esperienza al Giornale Radio di Paolo Ruffini lo aveva provato capacissimo in quel ruolo, mentre le precedenti esperienze ne avevano indicato l’acume giornalistico, la preparazione profonda, la comprensione analitica dei fatti della politica, ma non solo.
Poi un brutto male, aggressivo. Ma lui ha seguitato a lavorare ogni giorno, anche quanto si sottoponeva ai trattamenti indispensabili per curare quel male aggressivo. Chiedeva di anticipare l’orario qualche volta, in modo da poter essere in orario per le riunioni. Questo era parte del suo essere “un laico” dei tempi che furono: il senso del dovere prima di tutto. Spostava le ferie per assecondare i colleghi, seguire le turnazioni. E il male avanzava. Quel tipo di cure, nel suo caso al riguardo della struttura corporea, debilitano. Ma lui usciva di casa con lo zainetto, fin quando ha potuto, e poi ha attraversato Roma all’andata e al ritorno, in automobile, per essere lì: “non posso mancare”, diceva, tutto qui.
C’era un’altra Italia nelle scelte e nei comportamenti di Maurizio, un Italia che poco viene ricordata, creduta, apprezzata. Un’Italia che passa anche perché non si crede che esista. Ma per lui se esisteva o non esisteva cambiava poco: lui era così. Poi, un anno fa, ha cominciato a scrivere il suo capolavoro. Un’operazione d’urgenza, e non ha potuto tornare al lavoro. Ma da allora a chiunque lo chiamasse lui diceva: “come sto? Io benone! E tu?” Diceva così anche agli infermieri, ai medici, ai familiari e chiunque si sentiva padrone di chiedergli ancora un aiuto, un consiglio. Che mai negava. Seguiva il suo giornale, i giornali, la passione per l’informazione e la filosofia non lo lasciavano. Ma ero lo stile, il tatto, il senso del dovere la cifra del suo capolavoro. Questo capolavoro lo ha scritto senza lamentarsi mai sebbene in condizioni che qualcuno scherzando definiva paragonabili a quelle di Giobbe. E’ una lezione che riguarda tutti, a cominciare ovviamente dal mondo dell’informazione, della quale è stato così brillantemente e umilmente parte per tanti anni. E’ l’umiltà nella disponibilità nonostante il dolore la lezione che Maurizio Ambrogi ha voluto dare a tutti gli amici e le persone che entravano in contatto con lui in questo tempo sguaiato o comunque sopra le righe. Questo tempo in cui la libertà sembra il diritto di fare come vogliamo lui l’ha testimoniata come libertà per: libertà per costruire un diverso senso del dovere, libertà per costruire una diversa responsabilità nel linguaggio, libertà per aiutare anche se in realtà si avrebbe bisogno di aiuto. Questa idea di libertà forse era troppo alta, ma era come una semina che faceva quotidianamente. Maurizio Ambrogi negli ultimi tempi della sua vita avrebbe potuto usufruire di facilitazioni, permessi, agevolazioni. Non ha mai voluto. E se gli chiedevi perché rispondeva immutabilmente “sto benone”! La Rai ha perso un dipendente, un giornalista, un dirigente che oltre che per le qualità professionali avrebbe potuto essere un fiore all’occhiello per quello che si chiama “servizio pubblico”. Ciao Maurizio. E grazie.