Il G8 di Genova è una ferita che vent’anni non sono riusciti in alcun modo a rimarginare, anche perché nessuno ci ha mai davvero provato. Fra depistaggi, falsità, insulti, accuse reciproche e promozioni sinceramente indegne di un paese civile, quella mattanza rimane uno dei punti più oscuri della nostra vicenda nazionale. Non a caso, Amnesty International definì lo scempio cui assistemmo in quei giorni “la più grave sospensione dei diritti democratici in Europa dopo la Seconda guerra mondiale”.
Avevo undici anni ma ricordo bene il clima fetido di quel luglio, le lacrime dei ragazzi stesi a terra, il sangue che colava dalle loro teste, le immagini efferate in onda al Tg1 delle 20, la ricostruzione puntuale di ciò che era accaduto quel maledetto venerdì in piazza Alimonda, la tensione altissima in via Tolemaide, peraltro una tonnara senza vie di fuga, e lo strazio di una perdita che ancora oggi lascia senza parole. Aveva ventitré anni Carlo Giuliani quando venne assassinato dal ventenne Mario Placanica, un altro povero cristo, una vittima più che un carnefice, mandato allo sbaraglio e costretto a obbedire e a ordini intollerabili, sbagliati, pericolosi.
Ebbene, tenendo conto di tutto questo, possiamo dire al di là di ogni ragionevole dubbio che Genova costituisce lo spartiacque per un’intera generazione. I ragazzi che avevano vent’anni allora, in molti casi, hanno infatti smesso di dedicarsi alla politica, in alcuni casi addirittura di seguirla, quasi sempre di amarla e di crederci, con la conseguenza che oggi ad amministrare la cosa pubblica o a sedere in Parlamento, di quella generazione, sono per lo più i peggiori.
Ci sono alcune ovvie eccezioni, sia chiaro, ma confermano la regola, perché il meglio dei ventenni che credevano in un altra idea di mondo e di futuro, contro una globalizzazione senza regole, all’insegna dello sviluppo sostenibile e della dignità della persona, quei ragazzi si sono arresi. E noi crediamo che non sia un caso, che uno degli effetti di quella barbarie sia stato proprio questo e che fosse voluto, al fine di consolidare un’egemonia liberista che solo il collasso del biennio 2007-2008 e la crisi devastante legata al Covid ha messo in discussione, quando si sapeva già allora, prima che Greta Thunberg nascesse, che quel modello ci avrebbe condotto nel baratro.
Genova, con il suo sangue ancora caldo, con il suo puzzo di morte, la sua sofferenza senza fine e il suo senso collettivo di sconfitta e di abisso, si lega a un altro evento di quella terribile estate, l’11 settembre, testimoniando insieme il collasso di ogni speranza, la perdita di senso dell’Occidente e l’inizio di una nuova era, caratterizzata dall’incertezza e dal declino.
In quaranta giorni si decise il destino di una generazione, ormai rassegnata a non avere un futuro o, comunque, a non avere un futuro roseo, al precariato, alla mancanza di prospettive, alla fatica di vivere e di credere in qualcosa.
Genova, vent’anni fa. Non ci siamo mai ripresi e, forse, non ci riprenderemo mai, anche perché, a quanto pare, ci mancano del tutto il coraggio e la volontà politica di tornare a immaginare un destino diverso.
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