A distanza di quasi un anno dall’apertura dei procedimenti di emersione in favore dei lavoratori in attesa di una prima definitiva regolarizzazione, il bilancio è ampio, variegato e, soprattutto (occorre osservare) ancora provvisorio, se non per molti versi precario.
In primo luogo, l’emersione del 2020 ha scelto diversi canali di definizione: dalla procedura che ha visto le Questure direttamente interessate dell’espletamento di ogni incombenza e della relativa istruttoria (con l’intervento finale dell’Ispettorato del Lavoro, che ha convalidato il contratto in conversione per il rilascio del titolo elettronico, in smart card, all’esito della prima fase, che ha visto, preliminarmente, il rilascio di un permesso di soggiorno semestrale, in attesa della formalizzazione di un secondo contratto di lavoro) alla cd. emersione ordinaria, suscettibile, questa volta, di diramarsi nelle due diverse categorie, della promessa di lavoro, da contrattualizzare davanti allo Sportello Unico dell’Immigrazione presso le Prefetture nazionali, e della dichiarazione di sussistenza di un rapporto di lavoro pendente, previo pagamento di un contributo forfetario iniziale e, nella seconda ipotesi, con l’aggiunta di un contributo ulteriore omnicomprensivo.
L’esperienza dei soggetti interessati ne ha fatto ricavare i seguenti dati: il primo canale di emersione presso le Questure, a parte le discriminazioni originarie, e ingiustificate, che hanno fatto escludere i titolari di permessi provvisori scaduti prima del termine previsto dalla norma (i quali hanno dovuto, qualora possibile, rivolgersi alla procedura ordinaria), si è concluso felicemente e tempestivamente. I beneficiari, già richiedenti asilo nella maggior parte delle ipotesi, avevano rapporti in corso di lungo periodo, ed erano pertanto in qualche modo regolarizzati, seppure in misura precaria: è il caso, anche numeroso in certe aree geografiche delle province campane, dei lavoratori agricoli e dei badanti, o addetti alla collaborazione domestica.
Diversamente è stato circa la procedura ordinaria, dove gli incombenti sono maggiori e più gravosi, a partire dalla produzione, fatta obbligo a pena di rigetto delle Prefetture, di una certificazione di idoneità alloggiativa, fino all’osservanza delle circolari, anche da parte dei datori di lavoro, e i problemi di reddito, o fatturato, nelle prevedibili complicanze fiscali suscettibili di riguardare le imprese agricole.
Appare evidente che in territori difficili, quali quelli del napoletano e del casertano, la ricerca di un alloggio che non sia meramente idoneo, ma munito di una certificazione di idoneità (sembra un gioco di parole, ma non lo o è affatto, essedo l’alloggio idoneo anche quello di cui al contratto di locazione registrato, senza con ciò coinvolgere attestazioni di idoneità abitativa) diventa la “buccia di banana” su cui è facile scivolare. Basti pensare alle case fatiscenti, alle abitazioni adibite dai proprietari a diversi usi catastali, agli immobili pur regolari nel senso della richiesta certificazione, ma di ridotte dimensioni abitative; vi si aggiungono i cavilli delle leggi, che impongono parametri rigorosi nell’accertamento e nella risultanza.
Per tali soggetti, implicati loro malgrado nelle pastoie burocratiche, di cui nemmeno comprendono pienamente l’iter, l’esasperazione diventa un sentimento naturale, e spesso difficile da combattere, in quanto viene percepito come una sorta di ingiuria, di lesione alle tutele, di limitazione ostracizzante.
E’ chiaro che se nello spirito della prassi le certificazioni sarebbero ispirate da un richiamo alla tutela dei lavoratori stessi, tale spirito non può essere percepito dai lavoratori coinvolti, che non sentono, in alcun modo, di beneficiarvi, ma si sentono costretti ad omaggiare regole di cui appunto non comprendono il senso, e che non li garantiscono, a ben vedere, nella minaccia di immeritati rigetti, in dispregio dei sacrifici profusi e degli sfruttamenti in agguato, cui non sono ancora scampati.
Incombente che peraltro non si è richiesto nei procedimenti semplificati davanti alle Questure e che invece le Prefetture pretendono rigorosamente, non accontentandosi della mera richiesta ai Comuni.
Il tutto per tacere dell’esasperazioni dei datori di lavori, che nemmeno comprendono la necessità di percorsi complicati e che li perturbano nel peso della responsabilità verso le loro risorse nel momento in cui loro stessi dovessero risultare sprovvisti di tutte le condizioni di ammissibilità della domanda.
Ma vi è di più! Il discorso dell’emersione si profilava in piena emergenza sanitaria ed aveva come spirito sotteso il bisogno di far fronte alle cure degli immigrati, dei vulnerabili e degli invisibili; si vede che oggi tale spirito risulta in qualche modo tradito; già nel periodo iniziale della sanatoria, i lavoratori affetti da covid che mostravano alle ASL le ricevute telematiche si sentivano dire – si aggiunga all’esasperazione e nel dispiacimento delle ASL stesse – di non poter essere protetti, in quanto non irregolari dal punto di vista della tessera STP, e non ancora regolari, e dunque non in possesso di tessera sanitaria per poter essere recepiti dal sistema informatico. Ne risulta che le Amministrazioni non comunicano, mentre le conseguenze di tale difetto si riverbera sulle vittime incolpevoli.
A voler essere benevoli, è da dire che nell’esperienza pratica quotidiana le Prefetture nel sistema dei termini, e della remissione in termini, tentano di lasciare tempo e spazio utile alla risoluzione dei problemi, e che nelle lungaggini procedurali, non sempre pregiudizievoli, l’insidia superata diventa aspettativa di regolarizzazione, che poi si traduce nella concessione del beneficio.
E soprattutto, si vede, il discorso resta aperto e – si spera – non precario; si invoca, a questo punto, la collaborazione di tutti; Autorità; Operatori; Soggetti Interessati, perché nel superamento complessivo delle insidie, la legittima aspettativa conservi inalterato tutto il suo valore e la sua efficacia evolutiva, nell’intento di restituire dignità, sia pure a quel numero ristretto di lavoratori, nell’esclusione di quei tanti, purtroppo non ammessi nelle categorie predeterminate e destinati, in barba all’applicazione del principio costituzionale di eguaglianza, alla precarietà come pratica di vita.
Si ringraziano i volontari e i sensibilizzatori dell’opinione pubblica, ed in particolare la dottoressa Marilena Passeretti, Vice Presidente dell’APS Hamef, in Napoli, per l’impegno assiduo, appassionato, sincero e valoroso e per essere stata capace di riunire la “rete” di settore dall’interno, di offrire una voce comune alla ricerca di soluzioni che possano finalmente rivelarsi efficacemente univoche.
Fatou Diako
Presidente Associazione “Articolo 21” Regione Campania