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Il Perù in bilico

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Le condizioni materiali e culturali che scandiscono la vita quotidiana dei 35 milioni di peruviani spiegano concretamente il sostanziale impasse del risultato elettorale, con i due candidati presidenziali alternativamente in testa per pochi decimi di vantaggio uno sull’altro. Proseguito tutta la notte scorsa, lo scrutinio sarà lungo e tormentoso, all’ultima scheda. Ci sono forti tensioni in entrambi gli schieramenti. Fratture multiple percorrono il paese da nord a sud: costa contro altipiano, centri urbani bianchi opposti all’interno indio e nel mezzo le super-affollate periferie meticce. Uno scarto minimo tra vincitori e sconfitti è un fenomeno osservato in gran parte dell’America Latina e dell’Occidente. Ma in Perù sembra minacciare una governabilità già pericolosamente fragile.

A un secolo di distanza dalla pubblicazione dei famosi Siete ensayos de interpretación de la realidad peruana, il più grande paese andino si ritrova sostanzialmente in una crisi analoga a quella descritta dal giornalista e filosofo politico José Carlos Mariategui, dopo l’esperienza italiana che gli aveva permesso di approfondire l’analisi del suo paese attraverso la lettura di Vico, Labriola e Croce. Oggi, con oltre il quintuplo degli abitanti di allora, il macabro record di 190mila morti di Covid e ospedali con le barelle in coda lungo i marciapiedi, la sua dimensione si presenta ancor più tragica. Esasperate e visibili le mai ridotte distanze tra i diversi gruppi sociali e regioni geografiche. Breve il recente ciclo felice degli alti prezzi dell’export. Effimero il contenimento della povertà che ha consentito.

L’economia, mai ammodernata da un’efficace riforma agraria, né da un’industrializzazione sufficiente ad approvvigionare almeno il mercato di consumo interno, ha perduto un 12 per cento di capacità produttiva e di occupazione nell’ultimo anno e mezzo. Molto di più se si tiene conto dell’incerta ma comunque rilevante economia informale, del lavoro nero. Petrolio, gas, zinco, oro e argento che nei decenni sono andati sostituendo guano e salnitro da tempo esauriti, non bastano a ripianare i deficit. I gruppi politici nazionali, locali e i dirigenti d’impresa viziati da improvvisazione e inefficienza, una proliferazione abnorme di partiti e candidati (18 al primo turno elettorale dell’aprile scorso), sussistono ma soffrono una continua emorragia di credibilità e consenso.

Le grandi famiglie politiche del Novecento, conservatori, liberali e socialisti, si sono via-via dissolte nel personalismo e nella corruzione, prima di riuscire a emanciparsi pienamente dalle tutele di un’oligarchia che ha diversificato i suoi interessi senza svincolarsi dal latifondo. L’economia nazionale è rimasta subordinata all’esportazione e al grande capitale straniero indispensabile agli investimenti. Tutti i capi di stato degli ultimi trent’anni sono finiti sotto processo. Il più prestigioso, Alan Garcia, si è suicidato per non subire l’oltraggio dell’arresto. Il futuro collettivo è una nozione smarrita ai più. Negli sfibrati rapporti tra politica e società civile prevalgono lo scambio d’interessi immediati e il bombardamento propagandistico dei mezzi d’informazione di massa che li identificano e impongono.

E’ così che in uno dei passaggi più critici della sua storia il Perù è giunto a dover scegliere il nuovo capo dello stato tra un candidato semisconosciuto, Pedro Castillo, cinquantunenne maestro rurale impegnato nel sindacalismo, con un programma socialisteggiante in economia e oscurantista nei diritti civili; e un’altra, Keiko Fujimori, 4 anni più giovane, conosciutissima in quanto figlia e seguace dell’autoritarismo dell’ex presidente Alberto, in carcere per delitti di lesa umanità e corruzione, e lei stessa sotto processo con la pubblica accusa che ha chiesto una condanna a 30 anni per riciclaggio e associazione a delinquere. Lei promossa dalle élites urbane e dai Vargas Llosa, il padre Nobel di letteratura dall’Europa e il figlio aspirante leader politico on the field; lui cappello contadino sempre in testa e sulle spalle il poncho, icona dei diseredati.

Castillo è stato immediatamente definito dagli avversari “un comunista e un pericolo per la democrazia”. “Ridurrà il Perù alle condizioni del Venezuela”, ripete Mario Vargas Llosa, che dopo aver chiamato per anni Keiko “corrotta e figlia del dittatore assassino”, ha finito per sostenerla attivamente come il presunto “male minore”. Impostata in questi termini la campagna elettorale si è polarizzata al massimo. Molti slogan e nessun dibattito vero. Nessuno ha approfondito circa le procedure e le garanzie con cui Castillo vorrebbe ricontrattare le concessioni minerarie alle grandi multinazionali per ridurne i profitti. Qualche polemica, ma nessun dibattito sulla dichiarata intenzione di Keiko di concedere l’indulto al padre il giorno stesso in cui divenisse Presidente e rivedere l’ordinamento giudiziario quello seguente.

Se come appare ormai probabile il prossimo capo di stato risulterà eletto da una maggioranza aritmetica più che politica, il Perù si troverà di fronte a un paradosso. Quello di dover trovare in tutta fretta uno spazio di conciliazione in Parlamento e nelle piazze, dopo aver spinto alla massima polarizzazione la campagna elettorale per fare del voto il “giorno del Giudizio”. Non sarà facile. Di Castillo non conosciamo il talento negoziale e la pacatezza con cui in queste ore tiene a freno l’impazienza dei suoi potrebbe esaurirsi. Keiko è invece una politica ormai consumata. Ma per quanto alla vigilia del voto non abbia fatto che chiedere scusa a tutti per le sue passate intemperanze, il sabotaggio fomentato per anni contro i governi di Kuczynski e Vizcarra difficilmente verrà dimenticato.


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