BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Anne Lister e il diavolo

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Se i moduli narrativi di gran parte della prima stagione di Gentleman Jack derivano dal biedermeier anglosassone assai acidulo di Jane Austen, e in parecchi punti dalle distorsioni ottiche di Dickens – in particolare ogni volta che la scena è occupata da Christopher e Jeremiah Rawson –, tutto cambia di colpo alla fine dell’episodio 7.

Fino a quel momento Anne Lister si può considerare un frammento impazzito del Secolo dei Lumi: razionalismo, fede assoluta nella scienza, inclinazioni libertine. Non a caso la Francia è la più amata fra le sue seconde patrie. Ha un atteggiamento politico fortemente conservatore, tuttavia agisce secondo giustizia, e riesce a conciliare senza fatica la religione con la ricerca, poiché anche la scienza è stata creata da qualche divinità inquieta che abita i cieli annoiandosi terribilmente.

Le manifestazioni della follia la inducono a ritrarsi, rappresentando l’irruzione di forze incontrollabili e pericolose nel quotidiano. Tuttavia un volo della mente da parte di Wainwright e Jones, esattamente in quel punto della 7^ parte preparato con cura senza che ce ne avvedessimo, spinge la protagonista oltre la soglia del Settecento facendola precipitare nel maelström del Romanticismo. Ricordiamolo: Anne, a Londra, sta indossando la redingote davanti a uno specchio da terra dalla cornice di legno, appena inclinato, e all’improvviso sente la disperazione di Ann Walker attraversare la superficie di cristallo per giungere fino a lei. La ragazza, che nel frangente descritto assume una connotazione elisabettiana incarnando lo spirito di Ofelia, si trova a un passo dal suicidio e invoca Anne. Il turbamento della protagonista è profondo, e per un momento sembra voler passare al di là dello specchio – con una mano, con gli occhi – accettando per la prima volta di ascoltare la voce di una dimensione diversa da quella organica. Lo sguardo disorientato, pieno di dolore e di un’apprensione nuova, cerca tuttavia di rifluire verso la riva. Anne si scosta dallo specchio come da un fenomeno demoniaco, e mette il cilindro – accessorio che sembra darle sicurezza in ogni occasione –, ma il mondo è cambiato per sempre, e neppure lei è più la stessa. Osserva la propria immagine riflessa alla ricerca di una rassicurazione che invece non trova. Quella figura si è staccata da lei e ha persino assunto un’evidenza sinistra. Un attimo e ci troviamo dalle parti di Dostoevskij, Puškin e Hoffmann: i sosia, le dame di picche, gli uomini della sabbia, le lenti scure, tutti i giochi combinatori, gli sdoppiamenti e gli elisir diabolici che dall’Ottocento sono arrivati sino a noi.

Anne scende in strada camminando in fretta, più in fretta del solito, rigida e tenendo la testa leggermente curva, gli occhi atterriti e fissi sul selciato o rivolti verso qualcosa di invisibile, o dentro. Fugge dall’ombra che scivola veloce dietro di lei, dalla paura di cadere nella pazzia, da quelle prospettive fattesi di colpo sghembe, anamorfiche, dai presagi e dai fantasmi, da quella se stessa che diventando Letteratura la sta infine, davvero, ponendo fuori dai generi, da qualsiasi genere, mentre i sussurri dell’imperscrutabile la avvolgono, salvandola senza possibilità di ritorno.


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