Con la riapertura delle sale cinematografiche, lo scorso 6 maggio è arrivato sul grande schermo il cinquantesimo lungometraggio di Woody Allen, distribuito in Italia da Vision Distribution. Un ritorno, per il pluripremiato regista, attore e sceneggiatore, davvero in grande stile.
Ambientato in Spagna, al Festival Cinematografico di San Sebastian, l’ultimo film di Woody Allen, ‘Rifkin’s Festival’ – arrivato nelle sale italiane con Vision Distribution solo lo scorso 6 maggio a causa dei ritardi connessi alla pandemia – riporta nelle atmosfere più tipiche alleniane già dai primi istanti: Mort Rifkin (Wallace Shawn) è un ebreo newyorkese sulla sessantina, ex professore di cinema che cerca da anni di scrivere il ‘romanzo del secolo’. Sposato con l’ancora giovane e attraente Sue (Gina Gershon), addetto stampa del regista francese Philippe (Louis Garrel), Mort decide di seguirla in Spagna per il Festival, preoccupato dalla presenza dell’ammiccante e acclamato regista per il quale sua moglie ha una cotta evidente.
Un improvviso malessere al petto lo induce a prenotare una visita cardiologica durante la permanenza iberica, ed è proprio così che incontra la bella Jo Rojas (Elena Anaja), una donna avvenente imbrigliata in un matrimonio tormentato con il ‘poligamo’ artista Paco (Sergio Lopes). Tra nevrosi, ipocondria e insicurezze di un rapporto di coppia alla deriva e un nuovo entusiasmante incontro, Mort vive giorni altalenanti tra euforia e incertezza cui fanno seguito sogni vivaci e rivelatori che non nascondono la paura della ‘grande falciatrice’, impersonata da Christoph Waltz. La vecchiaia è una costante mai espressa, che tuttavia accompagna e marca tutto il film. E’ una variabile che Allen non può nascondere – considerati i suoi 86 anni – e che tratteggia in un’opera che parla di sé, delle sue passioni – a partire dalla fascinazione per le donne più giovani – e della sua giovinezza, che emerge nella vivace attività onirica del protagonista che prende vita tra le scene cult di alcune note pellicole di Truffaut, Godard e Fellini. Realtà e sogno si alternano mirabilmente tra colore e frammenti in bianco e nero, resi straordinari dall’eccellente fotografia di un maestro come Vittorio Storaro. Rifkin’s Festival rappresenta un omaggio al cinema e una riflessione sull’industria dell’immaginario di cui Allen ha fatto pienamente parte, pur non sentendocisi mai propriamente a suo agio.
E’ così che in Rifkin’s Festival il mondo del cinema viene proposto come un circolo di intellettuali che si agitano tra party, proiezioni e interviste ‘imperdibili’ cui tutti partecipano, pur controvoglia. Sullo sfondo restano le nevrosi, l’ipocondria e la fine di un matrimonio che si riversano nei dubbi e nelle incertezze del protagonista, con tanti quesiti rimasti, tuttavia, senza risposta.
Quello che ci regala Allen in questa sua ultima opera – segnata anche da ristrettezze budgettarie, complice l’onda che in America stava montando verso di lui alimentata dalla serie Allen v. Farrow – è il ritratto di un mondo del quale non sente di fare più parte, benchè sia stato il suo per tutta la vita.
Il risultato è un film straordinario, in cui emerge tutta la maturità dell’artista senza rinunciare al guizzo e all’ironia che – almeno in Europa – ce l’ha fatto tanto amare.
Un film intelligente, brillante e pieno di quell’ironia dell’Allen dei tempi migliori. Grandiose le interpretazioni degli attori. Quello che forse tutti avrebbero voluto sarebbe stato vedere il regista stesso sullo schermo, nei panni, ancora una volta, di sé stesso.