BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Il sabato del Villaggio Roma

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I londinesi la chiamano “tube” e la metropolitana di Roma conferma che “tubo” è un epiteto appropriato. Come da un tubo digerente intasato, ogni sabato pomeriggio la stazione di Piazza di Spagna vomita, a conati cadenzati, boli di minorenni in divisa regolamentare nelle fogge e variopinta come ali di farfalle nei colori. Gli scarponcini si dividono equamente i piedi con le più stravaganti sneakers. Ombelichi femminili occhieggiano tra bolerini striminziti e fuseaux alternati ai jeans. Tute dai colori improbabili e dalle scritte trasversali – manifeste imitazioni cinesi dei marchi più prestigiosi – coprono corpi dalle più svariate forme: giovani alti e longilinei, bassi e grassi, grossi e alti, corti e magri. E tutti garruli ed eccitati, felici di essere sbarcati in “centro” ciascuno col suo gruppetto di due, quattro, sei amici: quasi sempre in numero pari, ma raramente misti nei generi. I maschietti con i maschietti e le femminucce con le femminucce si sparpagliano da Piazza di Spagna nelle strade parallele di Via Frattina, Via dei Condotti e Via della Croce verso un unico obiettivo: quella Via del Corso in cui confluiscono tutti, provenienti dalle periferie di Roma Sud e Roma Nord, unite dalla Metro “A”. E cosa fa questo esercito di minorenni, tanto fitto da far dubitare del calo demografico, una volta arrivato in “centro”? Lo struscio.

Come nei più remoti paesini dello Stivale, a Roma il sabato pomeriggio i giovani si dedicano allo struscio. Ma mentre nelle cittadine ci si conosce tutti e, incrociandosi, si lanciano sberleffi oppure occhiate, preludio di amori che sbocceranno nelle prossime giornate scolastiche, forse che si, forse che no, a Roma nessuno conosce l’altro e non si fa nessuno sforzo per conoscerlo. È uno struscio fine a se stesso, esattamente quello descritto da Leopardi ne “Il passero solitario” (1835) quando recita: “Tutta vestita a festa
La gioventù del loco Lascia le case, e per le vie si spande; E mira ed è mirata, e in cor s’allegra”
, ma è uno struscio, a Roma, che non comunica, non scambia, non cerca l’altro. Mostrarsi e compiacersi. Tutto qui.

Quattro giovinetti siedono ad uno dei tavolini esterni di un bar di Via Frattina. Belli, con le loro frangette a coprire le sopracciglia come neanche faceva, anni fa, la famosa Catherine Spaak. Bevono uno spritz arancione con cannuccia nera e contorno di patatine gialle e olive verdi. Chiacchierano fittamente tra loro e ridono. Al tavolo affianco una coppia di anziani beve lo stesso aperitivo, chiacchiera e ride di meno, ma il menu è identico. Quei quattro amici al bar parlano di soldi; i nonni al loro fianco parlano della pensione. Giovani già vecchi. Così, senza sprazzi d’avventura, la vita è omologata dalla culla alla tomba in una scialba borghesia, conservatrice fin dall’adolescenza. La vita come un’eterna infanzia dove si invecchierà solo dopo morti.

Ragazzi che pensano ai soldi, ascoltano rappers che cantano dei soldi e dell’ascesa dalla periferia al successo attraverso i soldi guadagnati senza spiegare come, che si agghindano ammirandosi allo specchio e concentrando su di loro l’effimera superficialità dell’estetica. Ma il percorso per arrivare ai soldi non gli interessa, vivono il presente senza pensare e tantomeno progettare il futuro.

I livelli scolastici di questi ragazzi sono preoccupanti. L’interesse per la politica è a zero. Il futuro è un eterno “dopo” di cui non si coglie alcuna attualità. La programmazione è un concetto talmente astratto che non esiste più nemmeno il diario della scuola: ci penserà il registro elettronico che però non è scritto da loro.

In un anno e mezzo di Covid-19, si sono bruciati due anni scolastici nella solitudine di uno schermo, spesso nero, perché ci si vergogna a tenere accesa la telecamera che mostra alle tue spalle la casa dove vivi rivelando, attraverso i piccoli dettagli di un armadio, di un infisso, di una libreria, del panorama di una finestra, da dove vieni, dove stai e, quindi, chi sei, confondendo l’avere con l’essere. La metafora dell’ascensore sociale, per cui molto spesso chi viene dal basso più in alto ascende, non convince più e la fatica e il sacrifico di costruire una carriera con ferma determinazione sono irrisi.

Per due anni ai nostri ragazzi è mancato l’esempio del lavoro, magari visto attraverso i finestrini dell’autobus che ti porta a scuola e dei ritmi familiari della sveglia all’alba per recarsi a prendere ciascuno il proprio servizio. È mancato loro il contatto con l’impegno per vivere degli adulti e gli effetti si vedono in questa immaturità, in questa incapacità di contatti con gli altri, in questa ristrettezza dei rapporti umani circoscritti a pochissimi intimi.

Di ribellioni generazionali come nel Sessantotto neppure l’ombra; della vita in comune per amare, discutere, cantare, suonare insieme e progettare un mondo migliore e più uguale per tutti, neppure il barlume; nessuna tensione o propensione verso gli altri per vivere tutti in modo più giusto. Stimolati sul punto, rispondono “Non è un mio problema”.

E se la scuola portasse questi ragazzi in una fabbrica per assistere al processo produttivo, dalla catena di montaggio all’assemblea degli azionisti, per far comprendere che il loro studio di questi anni è il ponte verso il mondo del lavoro e dell’impegno collettivo nel sociale e non una mera perdita di tempo o un compito obbligatorio, piacevole come pagare le tasse? Magari cominciando dalla fabbrica dei giocattoli….


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